martedì 23 agosto 2011

Lettera aperta di Gio Ferri sulla 54° Biennale Internazionale di Venezia

Egr.Prof.
Paolo Baratta
Presidente
Fondazione
“La Biennale di Venezia”
Ca’Giustinian
San Marco 1364/a
30124 VENEZIA

Gent.ma Prof.a
Bice Curiger
Direttore
54.Esposizione Internazionale d’Arte
c/o Fondazione “La Biennale di Venezia”
Ca’ Giustinian
San Marco 1364/a
30124 VENEZIA



Lesa sul Lago Maggiore, 27 luglio 2011

Gentilissimi Prof.Baratta e Prof.a Curiger,
il nostro periodico in forma di libro, TESTUALE, rivista di critica della poesia e delle arti contemporanee, è ben noto alla Fondazione “La Biennale di Venezia” che da quasi trent’anni riceve regolarmente i testi, dandocene cortese riscontro. I volumi sono pubblicati integralmente, oltre che in cartaceo, anche in internet al sito www.testualecritica.it.

In una rubrica dal titolo Letterale vengono pubblicate lettere aperte inviate per le diverse occasioni a scrittori e artisti. Ad ogni “Biennale d’Arte”, e sovente anche di Architettura, abbiamo sempre scritto ai direttori e curatori esprimendo le nostre osservazioni, utili alla promozione di dibattiti con i nostri lettori, con i poeti e gli artisti, e con gli stessi curatori delle diverse edizioni espositive e pubblicazioni. Sovente abbiamo ricevuto risposte dai curatori medesimi dell’Esposizione: in particolare rammentiamo fra gli altri un intervento prestigioso, e intelligentemente polemico, di Harald Szeemann, che, come si ricorda nell’attuale catalogo, ha dato il via nel 1999 alla ipotesi critica, per la verità un poco generica, di un aperto e «libero sguardo sul mondo». In quella occasione esprimemmo sommessamente un giudizio dubbioso in merito ad una certa mancanza di coerenza critica. Considerammo tuttavia la “Biennale”  un’esperieza positiva non tanto per alcuni valori individuali (rari ma innegabili), quanto per il senso di una installazione complessiva, totalizzante. In cui, tutto sommato felicemente, potesse essere registrata una produttiva con-fusione (si noti il trattino), di (dis)misura estetica, e non solo, anche sociologica se non addirittura politica, soprattutto in senso culturale.

Purtroppo, ci spiace dirlo, la felicità di quegli incontri, per noi almeno, si è perduta quest’anno con la 54° edizione. La con-fusione è si è trasformata in vera e propria confusione (senza trattino!). Dopo le consuete maratone all’Arsenale, e il  periplo del Padiglione centrale e dei Giardini siamo usciti, appunto, confusi, tristi, disperatamente stanchi… Per inciso per quale motivo (forse per favorire i luoghi interni di ristoro?) sono state eliminate dai Giardini e dallo spazio oltrecanale tutte le panchine?! Quest’ultima può sembrare una osservazione di poco conto, tuttavia non si possono godere a fondo le opere d’arte e i relativi spazi senza un minimo di meditante riposo. Ciò vale, ma non è una novità, anche per l’interno dei padiglioni: nel catalogo osserviamo con invidia quella fotografia della sala Klimt alla “Biennale” 1910 in cui comode poltrone favorivano l’osservazione quieta e approfondita delle opere d’arte!

È vero che trattandosi (ormai) di una kermesse, tutto sommato di una fiera, siamo obbligati a viverla zizzagando… ossessivamente, ed è vero, perciò, come si nota in catalogo, che la «Biennale è come una macchina del vento…»: tuttavia il vento «scuote la foresta…» ma trascina anche cumuli di foglie morte…  Quest’ultima è la verità che più ci rattrista. Foglie morte: il vento di questa 54° “Biennale” raramente «scopre verità nascoste». Ben poco di quella prolifica con-fusione è rimasto a sollecitare una nostra coinvolta sorpresa. Dovremmo chiamarla, e ancora ci spiace e ci scusiamo, la fiera delle banalità. A cominciare da talune giustificazioni espresse in catalogo.

Banalissimo è il titolo ILLUMINAZIONI . Un ingenuo melange di lemmi (illumina-azioni-nazioni) che fra l’altro richiama un più prevedibile disagio intellettivo: troppo facile il richiamo alle strutture al neon o simili - vecchie di cinquant’anni, come prova il buio spazio attraversato da fili fluorescenti di Gianni Colombo, o  le cascate di acqua-luce-suono di Fabrizio Plessi, assai fascinose ma assolutamente negli anni ripetitive. Mentre utile sarebbe stata invece (a proposito di luce) una vasta retrospettiva dal grande valore storico delle ricerche luministico-cinetiche degli anni ’60, del “Gruppo T”, per l’appunto.  A sua volta, troppo facile e ovvia è l’idea che l’arte illumini le menti e le coscienze. Cosa dovrebbe offrire, e cosa mai ha sempre offerto l’arte se non questo? Che la luce, inoltre sia un classico tema dell’arte è altrettanto risaputo: e perché Tintoretto e non Tiepolo, o Canaletto (visto che, come si afferma, il tema è «adeguato a Venezia»)? Ma non basta disturbare i grandi classici, a fronte di tanto disordine in-creativo invadente la meraviglia di opere che con questo moderno poco hanno a che vedere (forse ci voleva a titolo di confronto, ma non c’è, Vedova, che sul Tintoretto si è formato…).  Ma si evocano anche… ad insaputa (!) di tanti  fantasmatici creatori, le Illuminations di Rimbaud: «impetuosamente poetiche»… Che vuol dire? Forse si voleva dire impietosamente, considerato il detto di Rimbaud,  Car depuis qu’ils se sont dissipés – oh les pierres précieuses s’enfuissant, et les fleurs ouvertes! – c’est un ennui!

Dissipazione e noia? Non vorremmo (ma fortemente temiamo) che queste condizioni dovessero anche per l’avvenire caratterizzare le esposizioni e le ricerche dell’arte e della critica.

Un esempio tragico, e non per un esagerato comune modo di dire, è il Padiglione dedicato all’Italia! Non è commentabile! Centinaia di opere ammassate senza criterio alcuno come in un deposito di rigattiere, illeggibili in quanto sovente tra di loro mischiate, sovrapposte, arrampicate sulle pareti e appese ai soffitti (!). Decisamente puerile è l’idea di far scegliere i manufatti da altrettante centinaia di cosiddetti, sovente sconosciuti, esperti di varie discipline, anche non artistiche.  Non è lecito puntare sull’ammasso ovviamente disordinato di gusti individuali acriticamente soggettivi (e, per essere maliziosi, ma non troppo, dettati da personali amicizie…). L’insieme è chiaramente il prodotto di una acritica megalomania pseudointellettuale, degna purtroppo del regime a-culturale (e non solo) nel quale il nostro paese è precipitato. Anche l’altr’anno il criterio espositivo era stato promosso dal Ministero della Cultura (un novello “Minculpop”!).  Se con questa iniziativa si è creduto di rappresentare il nostro attuale disastrato universo culturale e civile, si è perfettamente raggiunto lo scopo! Tuttavia qualcuno (pochi) sa che in giro c’è pure qualcosa di meglio, per l’arte e per l’impegno civile: e lo va dimostrando sovente con azioni volutamente ignorate, underground rispetto alle plateali e insincere e commerciali manifestazioni pubbliche (prive in realtà di pubblico cosciente).

Questa “Biennale” come le altre, lo abbiamo già ripetuto parafrasando dal catalogo, dovrebbe mettere allo scoperto «verità nascoste» e quidi assolutamente innovative nei contenuti e nelle forme.
Per verità non rimane che rivelare ai nostri lettori qualche esempio tratto dai residui frantumati di una civiltà in decadenza (e, ribadiamo, questo è, forse,  per l’esposizione, l’unico utile risultato).
Ciò senza distinzione fra i diversi padiglioni istituzionali italiani, e stranieri. In quanto, se può essere di consolazione, la disperante situazione è purtroppo assai generalizzata.

Maurizio Cattelan - forse rammentando per contrasto i famosi feroci uccelli di Hitchcock - con le sue centinaia di  piccioni impagliati e mortalmente quieti, distribuiti ovunque,  non ha dato certo il meglio di sé: desideravamo ancora una volta qualche sua inaspettata e conturbante invenzione. Tuttavia egli stesso in una recente intervista ha espressamente dichiarato di essere stanco di ‘giocare con i pupazzi’, proponendosi di dedicarsi per l’avvenire ad altro. Allora, perché è stato invitato? Non si doveva rimanere in attesa di quell’altro?  Guy de Cointent, e parecchi altri, giocano invece con le scritture ripetendo modalità già ampiamente sperimentate dalla Visual Poetry, altra esperienza italiana e internazionale insistentemente ignorata dalla “Biennale”, salvo un casuale modesto spazio di molti anni fa.  Peter  Fischli e Asier Mendizabal con le loro strutture insistono noiosamente sulla ormai storicizzata “Arte minimale.  Luca Francesconi, e  ancora parecchi altri, si divertono (loro!) a mettere insieme a caso gli oggetti più disparati: una bella novità! Sembra che poco ricordino del Dada e del Surrealismo, se non per pigro e stanco epigonismo….  Ma questi sono solamente pochi esempi. Così si potrebbe procedere, purtroppo senza coinvolgimenti…. chiamiamoli pure poetico-estetico-emozionali.

E poi fotografie, fotografie, fotografie… più o meno documentaristiche e per lo più assai poco ‘ambiguamente’ creative. E poi l’ormai usuale dominio del Video-tape in stanze funzionalmente oscure. Potrebbe essere la grande novità di questi ultimi decenni (e tecnicamente lo è) se fosse sostenuta da nuove idee e da nuove sperimentazioni formali. Quando invece per ora altro non si vedono, salve rare eccezioni, che ripetitive e banali proiezioni elettroniche, che non fanno che ricordare vecchi filmati.  Una interessante realizzazione ci può affascinare fuori dai confini della “Biennale” all’Abbazia S.Gregorio e al Mangili-Valmarana: si tratta dell’esposizione cinese “Future Pass” in cui si possono incontrare deformi e divertenti mimesi della vecchia Pop-art, ma soprattutto esperimenti elettronici tridimensionali con rappresentazioni spettacolari d’epopee mitiche conturbanti, in cui nascono e si sgretolano città e monumenti classicheggianti, e uomini, e naviganti verso l’ignoto, e naufraghi (con la citazione, fra l’altro, della Zattera della Medusa).

Non mancano tuttavia interessanti, seppur rare, installazioni anche entro i confini della “Biennale”.
L’omaggio della Francia a Christian Boltanski,  doveroso, con le metamorfosi fra nascita e morte in ritratti compositi proiettati dallo scorrere di una lunghissima pellicola mossa velocemente da un invadente castello di marchingegni metallici ruotanti. Tuttavia il visitatore più o meno ignaro non scopre qui il mondo fantasmatico del compianto maestro della Narrative Art. Peccato: a nostro avviso una occasione mancata.

Particolari interessi, anche lirici, sollecitano alcune installazioni d’interni distrutti, smangiati dal tempo, cadenti: resti di una architettura antica, dell’infanzia, nostalgica. Forse è, in parte, una novità sebbene derivi dall’estetica degli avanzi, dei cumuli di resti di cui anche recentemente si è riparlato. Siamo sempre grossomodo in ambiti DaDa, ma con l’arricchimento di una maggiore interiore emozione. Si distinguono alcuni ambienti indubbiamente suggestivi.

Per l’artista Song Dong di Pechino torna utile parafrasare la corretta descrizione del catalogo: «L’opera  Enclosure Movement (2011) è una struttura con 100 ante di armadio [che formano un labirinto] recuperate da famiglie di Pechino [con] riferimento all’abitudine di portare in strada vecchi mobili [con tendine e specchi] facendone luoghi di deposito», e ancora riferibili a una povera abitabilità, percorribile, con nostalgia per un morto passato, di stanza in stanza.  Così pure Song Dong «ha trasportato la sua centenaria casa di famiglia da Pechino a Venezia». È chiaro in seconda istanza l’intento sociale e anche protestatario, ma l’emozione è piuttosto paragonabile a quella che si prova visitando il mondo scomparso e insieme presente nella memoria di Boltanski.

Mike Nelson trasforma l’interno del padiglione della Gran Bretagna trasportandovi un intero appartamento del tutto inabitabile, stanze, studio, mobili e oggetti domestici semidistrutti e polverosi. Un luogo, anche questo, della morente memoria.

Altrettanto, in fatto di resti, propone l’India con Residue, film del Collettivo Desire Machine
che perlustra le ammuffite pareti, e gli interni, di una casa del tutto decrepita e inabitata.

Christoph Schlingensief  costruisce all’interno del padiglione della Germania una vera e propria antica cappella ecclesiastica cosparsa di icone pittoriche ed ex voto profani, con un altare che potrebbe intendersi come il tavolo consacrato ai ‘sacrifici’ estetico-memoriali. E con la fragorosa sonorità di brani wagneriani.

Lo statunitense Oscar Tuazon con Reped Land eleva un bunker semipericolante, con pareti composite ad incastro in cemento, che dalle crepe lascia filtrare in un buio cavernicolo conturbanti fasci di luce naturale.

Va ricordata a parte una delle opere sicuramente più straordinarie di questa esposizione: il Ratto delle Sabine, in grandezza naturale e in cera, dello svizzero Urs Fischer: la cera via via si scioglie e cola con un effetto apocalittico e mostruso, sia con riferimento all’arte, sia in relazione alla nostra decadente civiltà. Utile memoria fornisce il catalogo, citando dello stesso straordinario artista, l’opera You (2007): il profondo ‘cratere’ scavato per lungo e pauroso tratto in una galleria di New York. Gli spazi della “Biennale” si sarebbero ottimamente prestati alla ripresa di quest’opera,

Ma finiamo in bellezza!  Alle “Vergini” si scopre uno spazio che entusiasma grandi e sopprattutto piccini: Ho Tzu Nyen di Singapore propone bianche sculture di nuvole attorno alle quali, dal terreno erboso ed acquitrinoso, si sviluppano invadenti fumi anch’essi nuvolosi e nebbiosi. Spettacolare!

In conclusione, qualunque sia il giudizio che, a nostro modesto parere, può essere dato anche di questa 54° “Biennale”, va ovviamente riconosciuto a Lor Signori e a tutti i collaboratori il pregio di un’impresa che, proprio per la complessa e confusa situazione, richiede sicuramente gran fatica e grande sforzo organizzativo. Malgrado tutto, anche se per assurdo dovessimo dire che la “Biennale” è morta, dovremmo aggiungere, evviva la “Biennale”!

Cordialità.

TESTUALE
Un Condirettore
(Gio Ferri)


Questa lettera indirizzata ai curatori della 54 Biennale Internazionale d’Arte sarà pubblicata sul numero 49 del periodico TESTUALE, rivista di critica della letteratura e delle arti contemporanee,  edita in cartaceo e integralmente in internet al sito  http://www.testualecritica.it/

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