martedì 22 novembre 2011

Tiziano Salari su Silvano Martini “Mareale”


(Opera di Alberto Burri, artista molto amato da Silvano Martini)

“Da sempre si è inteso, come un dato che s’impone, che il luogo proprio, naturale, della parola poetica è il silenzio. E così, la sua apparizione è un’ascensione dal silenzio  in cui giace mai interamente inerte, il silenzio degli inferi dove si trova imprigionata come un ‘Essere” che chiede di manifestarsi al silenzio dall’alto, come è tipico della sua impari manifestazione, dove appare, spesso quasi asfissiata, l’ansia di prendere possesso della visibilità, il che implica l’ansia di assumere un corpo” (Maria Zambrano). A volte il silenzio è una cavità rimbombante  in cui le parole fanno gorgo e danno vita a un corpo in cui si mescolano stridori  quasi a voler essere risonanza di un essere dissonante attraverso cui il  reale ci assedia con tutte le sue implicazioni simultanee di tempi, di presenze, di rinvii in cui siamo gettati in un accumulo vertiginoso di casualità. Silvano Martini, in  Mareale, sembra aver ceduto a una sonorità indistinta per cercare di attraversarla e ritrovare il senso perduto di quell’alterità rispetto a ciò che si dice, e cioè la cosa non detta o il silenzio nel quale, direbbe Lacan, “sentire se stesso” come eco o rinvio della parola poetica.
Ora decifrare il senso di questo infittirsi di verbi, aggettivi, nomi, è possibile solo operando una trasposizione  al di là del velo delle parole, all’individuazione di una verità nascosta. Il soggetto poetico si trova all’interno di una situazione in movimento, forse in viaggio,tra interni ed esterni di un paesaggio mutevole, che può essere vissuto  solo attraverso il rinvio del soggetto a se stesso come oggetto, come accade nei sogni. Silvano Martini vive come in sogno una sua avventura esistenziale tra incontri e rumori innominabili e grida e voci, e come in un sogno  i passaggi svolgono una parata variopinta di immagini e di colori che ci lasciano un margine piuttosto ampio d’interpretazione. Si tratta di un viaggio, all’interno del quale è avvenuto un incontro,poco importa se d’amore, o per altri motivi, in un paesaggio dotato di monumenti e forse anche di rovine archeologiche. Non viene in mente alcun avvenimento particolare, ma piuttosto si allude all’onda sonora, quasi da spartito musicale, che avvolge il soggetto e lo smemora  in frammenti slegati da qualsiasi coesione, in modo che da dietro lui stesso, egli si senta accadere, in una violenta torsione che lo avvicina alla superficie delle cose. Egli non è più. È  il”bianco parapiglia”, “la rampa”“il grido sui nodi del tappeto”, “il titolo del libro declamato”,”il cane”, “le torri in luce”, “la foriera in ritardo sul banco del compostiere””il gallo tra le sbarre” “e lentamente una chiesa in associati cerchi”, e cioè la brutale emergenza del reale all’interno del quale difficilmente il soggetto può illudersi ancora di poter agire. L’ego è stato risucchiato nel vortice schizoide  che si apre dietro di lui e dove, smarrita la propria identità, si vede accadere fino all’apertura ariosa di una chiesa “in  associati cerchi” che sembra costituire un approdo, un ordine circolare al quale ancorarsi, ma come ci si ancora “ a un nulla di senso, ma questo nulla stesso come una cosa dura, resistente, impenetrabile” di cui  “ tutto il  reale   ne risuona” (Jean-Luc Nancy).



                    Da “Mareale”

natura  al calendario il piede ha resistito allo strumento
poi ha ceduto al bianco parapiglia la fissità di questa casa
che a sera stilla  nel vapore dubitare che il dialogo complichi
l’oscurità del carro atteso più che ferito dal candore
a cavallo in fitte file sul punto scosceso a volte grezzo
polvere appena quando lui grida e accade di esplodere all’intero
dalle prime file e passa dove non s’accende il tetto allora
dall’auto lo dice uscendo ancora dal laminatoio a brani

il dettaglio marcato dal percorso occhio all’insieme e vai
ultima è la rampa a cedere sul viso oblungo e non rimani
a dettare gocce alla memoria si appresta a scorgere le mani
mulinello nel sottile gli si stacca dal fianco il soccorso
nuda nel fuoco la reggia che cammina con unghie sorde
batte la finestra nel pensiero accomodandosi nel suo lanoso
queste immagini da capo scoccate ripiano per lettura grigia
nel confronto dal lampo in fuga e sotto il volo della sera

il viola che si rovescia e parla lascio il grido sui nodi
del tappeto la voce inseguita dal cespuglio la nota rada
ancora uno ne annodo nello sfiorire dell’ultimo dito
il suo ammaestramento nell’inguine il singhiozzo ridente
silenzio per carte azzurrate da sotto e il mento allegro
la luce per poco nella pelle libera disparante nei dettagli
l’usanza il piglio cieca gridava nel vapore il titolo
del libro declamato il grappolo sapiente il muschio sollevato

ci resta il pendio da riconoscere e tornerà in quest’aria a caso
sono basse fin dove il modello splende dipinto in ordini grandiosi
muniti sulla cima e al picco verde già meraviglia nelle grotte
il vento come guida e basta il mare adesso fra tutti facilmente
le scosse del fiume franoso e il vincolo sottile nella cosa
ma in attenzione e le grida così sull’iniziale assaggio
fauna dall’instabile altezza finito al bosco in quell’ottobre
sismico e i medesimi a notare nella valle il nome affluente e chiaro

la caccia nell’istinto di sfogare e il cane visto nel piacere
fuggito alla timidezza dell’ambiente proteso nell’innocuo rito
e un corpo subito sul blocco il gatto che si osserva nel frastuono
un tempo solo per l’insegnamento e precipita l’allarme da lontano
lo insegui nel rapporto sulla frangia piccolo nell’accordo di saltare
una chiusa finta di stimoli e poi invaso dalle conseguenze in luce
alla bocca della carne rosa mentre frena scrutando intorno
tellurico il nibbio a maggio e dissestato nel rischio sull’altura

le torri in luce e il passaggio dei resti sul portico del tempio
mentre frammenta il duca dalle opache mani il teatro dei bulgari
la fioriera in ritardo sul banco del compostiere appena irrise
il compleanno alla festa della voce e il pianto nel basso cono
la cascina a natale uscita dalla strada e immettendosi si prostra
al piede lo scavo nel frutteto che oscuro passa il trillo del corpo
nauti tra  osanna il sigaro il sorriso volendo dare un nome
aalle saliere e vengono condotti al gallo tra le sbarre intanto

largo alle murene antiche quei primi giorni stesi più in là
mentre sorgono da vicino e cingono americane le pianure agiate
il musicista nel suo giusto segno e allegro scivola il mattone
la pietra scopre la ninfa della famiglia riadattata il giardino
mozzo le torri e sul finire somministrato alle cose il dorso
in altro modo affabile oro e amorosamente di qua entro le polle
le tiare a spirali il fazzoletto aeroportuale sul carrubo
e lentamente a saliscendi una chiesa in associati cerchi

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