lunedì 12 novembre 2012

Mostra al Museo Carlo Bilotti “Afro. Dal progetto all’opera”, Roma


E’ possibile, nella mostra “Afro. Dal progetto all’opera” al Museo Carlo Bilotti Aranciera di Villa Borghese, Roma (dall’11 ottobre al 6 gennaio 2013), osservare i disegni preparatori di alcune opere esposte e verificare come le opere mostrino un’elaborazione di partenza che fa a meno del colore, quindi che inizia dal concepimento formale, dalla composizione pieno/vuoto, dall’intersecazione delle masse ove il peso dei valori tonali viene applicato soltanto attraverso una dosatura dei grigi. Quello che evidentemente si cerca è un equilibrio compositivo come elemento basilare e inscindibile della compiutezza artistica. Si noterà ad esempio in Due figure del 1952 come il quadro si discosti dal disegno preparatorio soltanto per un aggiustamento, una correzione dei toni più chiari che vanno ad intensificare e a rendere più dialogiche alcune zone altrimenti troppo piatte ed omogenee.   

E’ solo cercando di capire la gestione delle differenze che forse si può sperare di avere la sensazione di essere presenti mentre l’artista crea fisicamente il quadro. Si noterà, dunque, come lo studio preparatorio, eseguito nel medesimo formato dell’opera finale,  venga poi pedissequamente replicato dall’opera dipinta, ove viene migliorato spesso il rapporto della figura con lo sfondo (mai troppo articolato negli studi). Si veda Negro della Louisiana del 1951, in cui peraltro il colore nell’opera rende conto anche della capacità di Afro, che è straordinario colorista, il quale lo articola nel progetto compositivo come elemento che tragga la propria valenza del tutto autonomamente. Il colore è in grado di aggiungere una profondità luminosissima, una leggerezza corposa al dipinto.

Interessantissimi, poi, negli studi per Natura morta del 1952   i diversi passaggi che da un’iniziale foglio ideativo, in cui è presente soltanto una linea a matita che suddivide il foglio in porzioni, crea successivamente le zone che saranno campite: un primo abbozzo di forma. Forme che peraltro se pur bidimensionali, con i loro ghirigori e giri circonflessi indicano un’occupazione spaziale stratificata a cui peraltro il colore aggiungerà, se non ombreggiature, possibilità spaziali. I successivi studi preparatori evidenziano una prima campitura delle forme andando a segnalare ciò che sta sopra e ciò che sta sotto, le sovrapposizioni e le trasparenze, andando a definire, di conseguenza, quel dialogo tra oggetti formali che poi contribuiranno a creare la figura.

Nelle prove di Afro in cui è evidente l’influsso astratto e informale, la figura non scompare mai, ma si addensa sotto i nostri occhi come formata da un caleidoscopio di formelle. L’ultimo studio per Natura morta  realizzato con carboncino su tela intelata utilizza la grafite modulando con estrema leggerezza la stesura delle masse che poi appariranno colorate nell’opera dipinta.  E ancora una volta si potrà rilevare come il colore sia un agente formidabile nell’accentuare sprofondi nel volume e nel far lievitare campiture da un superficie creduta piana. Lo sguardo, nelle opere di Afro, è, infatti, sempre costretto a ricomporre le figure e a scavalcare dune e fossi sulla superficie della tela. Si noterà pure come, spesso lo sfondo, quando la figura stia al centro compattata come in Figura I del 1953, partecipi con il medesimo colore alla totalità del quadro, e la figura proprio da esso derivi le proprie variazioni tonali in una raggiunta delicatissima sinfonia.

Un altro straordinario esempio è Ragazzo con tacchino del 1954, in cui Afro sembra descrivere una storia come in Esercizi di stile di Queneau, ricominciando a narrare la medesima storia con stili differenti. Ogni volta partendo da un nuovo nucleo generativo. Un vero e proprio racconto di colluttazione dei corpi, di intrecci inestricabili tra membra e becco, tra mani e ali. E dove alla fine l’opera dipinta risulterà una sorta di chiarificatrice immagine, sintetica visione, quasi di raggiunto simbolo.

Allo stesso modo anche il disegno preparatorio Giardino per la Speranza, realizzato per il Palazzo dell’Unesco a Parigi nel 1958, ingaggia con l’opera finale una lotta, al pari di altri assedianti, tutti aventi il medesimo titolo per assurgere a immagine prescelta, che consente di vedere diramazioni della storia, svolgimenti che valgono come digressioni, sembra, anzi, che compiutamente appartengano all’opera realizzata,   quasi come se andassero a costituire un intero ciclo, non separabile dalla immagine terminale, che giocoforza ne sarebbe sintesi.  E vogliamo terminare con un’opera affascinante e singolare Trittico del 1952-1954 che mentre mostra sfrontatamente le influenze di Picasso e di Mirò, allo stesso tempo rivendica un linguaggio autonomo e compiuto basato esclusivamente sulla assoluta genialità di un artista che divorava i linguaggi artistici riuscendo a rimanere univocamente riconoscibile.

                                                                                 Rosa Pierno

Nessun commento: