lunedì 3 dicembre 2012

Marco Furia su “L’aperta grammatica” di Ranieri Teti

La scrittura di Ranieri Teti si presenta quale raffinato edificio di magmatiche articolazioni verbali partecipi, con assiduità, del silenzio.
Il poeta sembra servirsi di un inchiostro di cui è ingrediente anche la non parola.
Nulla di astratto, si badi, compare nella versificazione, al contrario, un concreto elemento emerge in tutta la sua importanza.
Esiste il silenzio? Si può ascoltare?
La risposta è sì.
L’assenza di suoni è una circostanza, un particolare aspetto della nostra vita.
Si può scrivere il silenzio?
Sì, certo, servendosi dello “spazio bianco” o anche inserendolo nella sequenza scritta.
Il nostro autore pone in essere, in maniera efficace, la continua riappropriazione di una sorta di zitto dire in forma allusiva e, sorprendentemente, in forma costitutiva: la sua scrittura non evoca soltanto il silenzio, lo parla, lo adotta quale vero e proprio lineamento stilistico.
Quando certe trame sembrano correre il pericolo di dissolversi in magmatici coaguli,
interviene una muta energia a impedire ogni caduta nell’indistinto, a conferire linguistica specificità a un susseguirsi di pronunce da cui può, così, emergere la presenza dell’enigma in tutta la sua vigorosa, per nulla incerta, dimensione.
L’enigma di Ranieri non è vago, è preciso, non è frammentario, è strutturato: in virtù di queste sue qualità, riesce a essere oggetto e, contemporaneamente, forma.
Senza compiere alcun cammino a ritroso, il poeta ritorna al segno, a quel nucleo primario che annulla le usuali coordinate e, da lì, si assume la responsabilità di rompere il silenzio, facendo però di quest’ultimo un proprio alleato.
Siffatto gesto non è fuori dal tempo, è con il tempo, è un esserci, non cronologica misura, bensì umana esistenza.
Sotto questo profilo quel segno è già poesia.
Ranieri è sapiente costruttore di elaborate complessità verbali, capaci di sciogliersi, all’improvviso, in genuina, sorprendente, naturalezza, è scrupoloso osservatore di fisionomie, colori, immagini, atteggiamenti, movenze che non si limita a rappresentare, ma che modella conferendo loro, con il suo elegante linguaggio, respiro vitale, è affidabile esploratore di territori concepiti dalla sua stessa penna e, a mio avviso, è attento poeta, ben consapevole di come una certa lingua possa diventare poesia a condizione di esserlo, in qualche modo, già.
Egli, davvero, crea il suo idioma e, tuttavia, anche lo trova , scoprendolo tra le pieghe di un divenire espressivo ricco di tratti straordinari eppure quotidiani.
Le sue pronunce, sempre sicure anche nei momenti più ardui di un infinito cammino,
risultano convincenti proprio perché in esse il lettore è posto in condizione di trovare, anziché un inesistente bandolo della matassa, un intreccio linguistico tale da incoraggiarlo a vivere con esiti fecondi un’espressività che dice proprio in quanto diffusa costellazione di segni.
Occorre un’invidiabile risolutezza per percorrere un articolato itinerario che può presentare sorprese ad ogni passo e occorre, senza dubbio, una buona dose di fiducia per offrire al pubblico sequenze linguistiche complesse e non facili.
Una comprensione immediata, nondimeno, può scaturire dalla lettura di questa poesia se ci si affida alla sua pregnante sonorità, se il tirannico paradigma logico viene sostituito da un pentagramma aperto a una grammatica che non necessariamente deve coincidere con le regole della melodia, ossia a una grammatica che spesso, per non dire sempre, suggerisce una strada, non la impone.
Come appare chiaro leggendo, ad esempio, i versi

“dove salvarsi è stato
scrivere un grido
dimesso in suoni
un trapassato volo
a destinazione minore

a taciuto sguardo” (1)

o il verso

“aver custodito una chiave fino allo smarrimento”. (2)

Non si tratta, allora, di cercare a tutti i costi una chiave di lettura, perché quest’ultima, a lungo custodita, fa parte di noi anche se, talvolta, possiamo pensare di averla perduta: provare a leggere per convincersene.

                                                        Marco Furia
                                                                                                                              


(1)          Ranieri Teti, “Entrata nel nero”, Kolibris Edizioni, 2011, pag. 29
(2)          Ibidem, pag. 43


Ranieri Teti è nato a Merano nel 1958.
Ha pubblicato La dimensione del freddo (1987), Figurazione d’erranza (1993), Il senso scritto (2001), Controcanto (dalla città infondata), immagini di Plinio Pinelli, nel volume collettivo Pura eco di niente (2008), Entrata nel nero (2011).
Collabora a riviste italiane e straniere ed è presente in numerose antologie.
Cura il periodico on line Carte nel vento e, per conto delle Edizioni Anterem, la collana “La ricerca letteraria”.
Figura nella direzione artistica del festival annuale VeronaPoesia.
Fa parte, dal 1985, della redazione della rivista “Anterem”.

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