sabato 22 dicembre 2012

“Soutine e la carne luminosa: note di lavoro” di Gilberto Isella


                                                                  Soutine è uno dei rari pittori ‘religiosi’ che il mondo
                                                                  abbia conosciuto, poiché la materia di Soutine è una
                                                                  delle più carnali che la pittura abbia espresso.
                                                                                                           Elie Faure


   Tra le figure emblematiche dell’immaginario di Chaim Soutine, spicca quella del cuoco. Osserviamo le mani di Le Petit Pâtissier (Paris, Orangerie).  Il cuoco-pasticcere-chirurgo è l’artista, colui che trattando la sostanza organica scopre l’oggetto pittorico in quanto manifestazione della materia assoluta, entro un alveo cosmico (la chôra) intriso di collanti primordiali. Che vede profilarsi i campi d’intensità (onde-colori, fosforescenze, volumi-plasma) dove affondare il pennello-bisturi e riformulare l’esistente, che intuisce l’anatomia molle dei turbini, l’allucinante ebbrezza del magma. L’artista a cui infine  l’alimento primordiale e quasi insostenibile  si rivela: la luce.
    Per Soutine l’inizio è luce, come rileva uno dei suoi critici più acuti, Drieu La Rochelle, luce persecutoria e devastatrice: “Sguscia dall’ombra come un feto ed ecco la luce. Essa lo batte, lo smembra, lo fa urlare. Il piccolo ercole si dibatte con tutte le sue forze, ma sarà per sempre ferito, per sempre infermo”… “Una sensazione luminosa, e già la tela è divorata. In un turbine di luce un essere passa…”.
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  Una figura passa: non nello spazio, ma per il tempo dell’oltre, divoratore.  Soutine s’impasta di luce, già prevedendone la fine. Distribuisce sulla tela  i propri sensori: ne pesca un’ipotesi di tempo. Chiasmo tra luce e policromatismo ribollente. Chiasmo-per-abisso, dove l’attrito dell’incrocio disegna la fantasmagoria di un eccesso, dice la delebilità di ogni colore –  per saturazione luminosa! - il deperire lento dell’universo come sfera della carne. Ecco allora profilarsi, amletico shakesperiano spettro, il grande maître-à-peindre: Rembrandt. Il Rembrandt della luce mortifera e sanguinolenta, quella che come un flusso ininterrotto dal Bue squartato conduce alla successione degli Autoritratti, fila indiana di scansioni crudeli, perfide flagellazioni del tempo, entropia. E che in Soutine si riverbera nell’Autoportrait (San Pietroburgo, Ermitage) o in Boeuf et Tête de veau (Orangerie), edipici vessilli col fantasma paterno. Carcasse di luce innaffiate dal sangue, eco della vivacità mortale della carne.
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  Il sangue (άιμα – anima) è l’inconscio d’ogni connettore di entità all’interno dell’universo, il suo croma edipico. Le Petit Pâtissier non armeggia con strumenti, ma il tessuto tra le sue mani reca già il rosso del sangue. Ellissi dell’atto dilacerante,  per esaltare la metafora-ponte,  per salvaguardare il colore-archetipo dalla banalità mimetica. Quel sangue supporterà la marsina del Garçon d’étage (Paris, Orangerie), coprirà l’intera uniforme del Groom (Paris, Centre Pompidou), la stragrande maggioranza dei fiori e dei frutti, i tetti delle case sotto cui immaginiamo la carne umana patire.
Quel sangue annuncerà la verità ‘veicolare-metamorfica’ del Boeuf écorcé: l’ordine delle costole diverrà la tormentata rossa colonna vertebrale di Escaliers rouges à Cagnes (Paris, Galerie Larock-Granoff), scala nel ventre del villaggio, rotaia che avanza  nella mollezza, e stampellandola  la cifra.
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   Osserviamo gli oggetti soutiniani: emanazioni di un  plasma matriciale indivisibile e, in quanto tali, senza bordi. In-vasanti, in-vent(r)anti: solo contiguità-atmosfere. Quête delle viscere originarie, nostalgia del bue che si autosquarcia senza scomparire, che affida la sua parte oscena alla logica  (deleuziana) del divenire-altro.  Il divenire-animale  (razza, fagiano, pollo, coniglio), il divenire-fiore (gli stupendi gladioli di Glaïeuls, irradiazioni del vaso pensante) il divenire-paesaggio, il divenire-ritratto come devoluzione metonimica alla natura morta vivente. Il volto umano nel ruolo di attrattore dei significanti di cui essa necessita: “Il volto costruisce il muro di cui il significante ha bisogno per rimbalzare, costituisce il muro del significante, la cornice o lo schermo” (G.Deleuze, F.Guattari, Millepiani).
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   Il significante narra la luce e la sua assenza. Avremo, incavata nel volto a triangolo,  l’ellisse bianco/nera degli occhi. Confrontiamo lo sguardo lunare di Madame Castaing (coll.privata) con quello  di La Raie (New York, Perls Galleries): medesimo punctum d’abisso, indizio del plasma primo.
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  Il corpo chirurgo già si affaccia in Nature morte aux harengs (Galerie Larock-Granoff),  tramite il cupo antropomorfismo delle forchette-mani, del piatto ovale occhiuto, e della tazza-testa, all’esterno, che ha sembianze di teschio.   Ai lati i rebbi-dita accennano a spostare, divaricare la triade dei pesci, che già immaginiamo oltre, trasformati per stiramento o annodamento, senza spezzarsi. Il campo della geometria sta per cedere a quello della topologia, come lascia intendere l’instabile ellisse del vassoio. Come dimosterà un ampio settore dell’opera di Soutine.
   La topologia  alleva figure che si ribellano al naturalismo mimetico, alla stasi euclidea. Assetate di temporalità, rifiutano di ob-stare.  Sanno che ogni forma è un avvento, un’avventura, un paradigma contro cui tramare.  Così i numerosi volti in torsione: virtuali sagome di Möbius (l’isteria dell’anello)  o prefigurazioni, al limite, di Bacon.
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   Anamorfosi, topologia come avventura. Dove la pratica dell’inabissamento prospettico –   la paradossale  presentificazione, fibra per fibra, del catasto memoriale di sé, il traumatico rifiorire delle sedimentazioni, talmudiche e dolenti, legate all’infantile yddishland, il  litval lituano - racconta la carne del mondo, il suo viaggio espiatorio. “Che si trascini nelle città o nei villaggi, egli riconoscerà ancora molte cose familiari alla sua angoscia” (Drieu La Rochelle).
    La carne, dunque, quale sintassi di un midrash esorbitante, commento delle origini. La carne che incorpora (“Mangiare il Dio, inspirare l’alito del fuoco divino”, Buber), e si fa spirito. Elemento che fluttua al di là del soggetto, determinando la multipolarità dello scenario:  un vacillare cosmico, febbrile, ubriaco (dalla figura umana alla figura-paesaggio) con il ruolo di operatore ermeneutico. Ben oltre l’espressionismo dei  coetanei (Kirchner, Pechstein, Kokoshka). In  modo diverso Soutine pone l’oggetto figurale sotto processo. Dove il tribunale non è la natura come ‘effetto di proiezioni egotiche’, che induce fratture o dissonanze tonali di primo livello, ma l’ipostasi ‘trascendentale’ del continuum. Né soggetto né oggetto, solamente processione di istanze nomadi. Istanze ‘circonfuse’ di psiche.
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  Osserviamo Arbre couché (Orangerie). Il paesaggio è muscolatura dinamica,  verde che si comporta da vortice. Un muscolo turbina e sta per risucchiare il mucchietto di case sghembe e occhiute del villaggio. Mai più certezze prospettiche, mai più ‘ossature’ d’immagini. S’impone il dispotismo dell’onda, flusso incontenibile della matrice.
  Onde, fasce in movimento, pieghe, sinalefi cromatiche o urti con sordine, avventura nel feticismo del molle, come carne insegna. Dalla pennellata di Soutine l’onda- pangea insorge per mettersi al servizio del tempo.
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  La matrice è già lì,  pre-supposta, come il sangue nelle mani del cuoco.
  Matrice unta, bagliore suppurato.  In una charogne baudelairiana – entro la conca cosmica – risiede forse il mistero della luce.
                                                                                    Gilberto Isella

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