giovedì 14 febbraio 2013

Gio Ferri su Meditazione e poesia come rivelazione. Le cose e i segni nella scrittura di Giulia Niccolai


* Giulia Niccolai, Poemi & Oggetti (tutte le poesie), Ed. “Le Lettere”, Firenze 2012
   Giulia Niccolai, Cos’è ‘poesia’, Edizioni de “il verri”, Milano 2012




In Cos’è ‘poesia’ Giulia Niccolai inizia il suo discorso, che è insieme un saggio critico e un racconto di vita, con la constatazione: Ciò che è poesia per uno, non lo è necessariamente per un altro: Giampiero Neri sostiene addirittura che poesia sia “ipotesi”, e io sono d’accordo con lui. L’osservazione innanzitutto ci conferma nell’idea, per altro non sempre riconosciuta, che la parola poetica, o il segno artistico, si manifestino secondo un (non)codice d’ambiguità. Vale a dire in dialettica contrapposizione con i codici codificati o codificabili della retorica, del discorso comune, del ‘buon senso comune’, della prassi contingente e  infine della comunicazione.  Forma quest’ultima di un rapporto sempre finalizzato ad un risultato utilitaristico: comunicare per convincere l’altro della bontà più o meno convinta della mia asserzione. Con uno scopo ben determinato, se non aggressivo, al di là di ogni mera ipotesi, perciò sostanzialmente menzognero. Non è la menzogna rappresentativa della poesia e dell’arte (di cui si è superficialmente abituati a dire) che ci interessa, bensì la verità di un segno anche silente di comunione, di empatia, di quella che gli antichi definivano coinonía. Poesia come ricerca di senso (senso e sensibilità, carnale e mentale e cosale) piuttosto che segno come segnale e quindi come significato. Significato ovviamente impossibile se ci muoviamo nell’ambito di forme ipotetiche. Poesia, quindi, come verità, non comunicativamente verificabile, bensì profondamente sentibile.

Nell’ambito dei processi psicoanalitici potremmo percepire la coinonía come una dialettica conoscitiva e appassionata, seppur silente, fra inconscio e inconscio. Ma rifacendoci a Jung dovremo prendere atto che «un certo strato per così dire superficiale dell’inconscio è senza dubbio personale. Esso poggia tuttavia sopra uno strato più profondo che è innato e che chiamiamo inconscio collettivo». È in questo spazio atemporale (rispetto alle storie icastiche o dell’inconscio personale), che poi è lo spazio dei miti, che rivivono e si trasformano (metamorfosi) i segni ambigui della poesia, le loro comunioni, la loro eternale presenza nella dismisura fantasmatica delle assenze. Sono i territori che ci rendono sempre attuali, seppur inconsciamente, i riti della poesia di ogni tempo e di ogni luogo. Si può osare di credere che ciò possa comunque coinvolgerci in quell’ ambiguo nulla prolifico, perché tacito ma creativo, dell’idea di poesia propostaci da Giulia Niccolai – come tutti sappiamo artista, poetessa concettuale prima, monaca buddista poi dal 1990.

Le assenze come spazio della poesia quale sopra intesa, trovano evidenza in un racconto della poetessa che parafrasiamo: … Eravamo a Kioto nel grande tempio Sanjusangen do, famoso per le 1001 statue di Bodhisattva i figli del Budda. 10 file di sculture in legno, ognuna di 100 personaggi quasi a grandezza naturale… Il monaco ci spegò che Sanjusangen do in giapponese significa 33. Come mai 33? Il monaco proseguì: il salone che ospita le statue dei 1001 è sorretto da 35 colonne 33 sono gli spazi vuoti tra le colonne…:

Capii subito che filosoficamente, / il fatto di dare il nome al tempio / in base al numero degli spazi vuoti / dunque a ciò che non c’è, / può essere interpretato / come la garanzia più elegante, / squisitamente Zen, / di non escludere mai niente, / e nessuno.

Dal niente e dal nessuno e visitati dalla meditazione, nasce la poesia, che deve essere  - o aggiungiamo è senz’altro – rivelazione.  La rivelazione che viene dalle coincidenze e dalle epifanie fra vicende e persone e oggetti e spazi. Queste, svela Giulia Niccolai, sono le cause fondamentali per cui iniziai un cammino spirituale… ed è come se la mia stessa vita fosse divenuta rivelazione: poesia.  Aggiungendo una ulteriore giustificazione la poetessa ci rende conto del fatto che: se non avessi trovato il Buddismo a cinquant’anni dopo l’ictus cerebrale, non credo che avrei avuto la forza di riprendermi… Sento chiaramente di dovere questa rinascita e questa meravigliosa ‘seconda’ vita di rivelazioni… al buddismo… dopo m’è risultato chiarissimo il fatto di aver già ricevuto insegnamenti dai lama in vite precedenti, delle quali io, prima, non avevo memoria.

Possiamo citare piccola ma significativa parte del testo Meditazione 2, dalle Meditazioni, uno dei percorsi di cognizione, riferibile, questo, alle rivelazioni dell’arte:

Un’incisione, netta, verticale / un “taglio di Fontana” / «la non rappresentazione / in favore della creazione / di sensazioni spaziali» /  – dice il Manifesto -  / e anche «il fatto di passare / a un altro piano dietro la tela, / per andare oltre ciò che è percepito»… /  l’apertura dell’occhio della mente  / …/ in grado di spaziare.

In Meditazione 5 rivela, a noi, e a se stessa:
… lì in quel campo coperto di neve / sotto terra, in un buio denso /  e neutrale: un chicco di grano…  / Questione di attimi e l’emozione / si trasforma in timore riverente:  / mi sento sopraffatta dalla forza / smisurata di quel seme, / una forza immane legata / a quella cosmica… La visione non può essere spiegata / a parole, il suo effetto  è stato quello / di aver vissuto per un attimo / l’armonia universale, l’interconnessione / di tutte le cose. / L’enigma divenuto / rivelazione?

La ‘prima’ e la ‘seconda’ vita… Oppure un’unica vita? Una possibile risposta può venirci dalla complessiva lettura del saggio, o racconto, lettura che deve essere parallela tuttavia alla lettura di Poemi & Oggetti – Poesie complete. Un percorso del quale si fa guida e garante, con una eccezionale introduzione, la poetessa e critico Milli Graffi, come è noto, fra l’altro, responsabile della redazione della storica e insieme attualissima rivista il verri.


Di questo percorso è fondamentale, citato con appropriati sviluppi critici da Graffi,  il romanzo di Giulia Niccolai Esoterico biliardo (Archinto ed., Milano 2001). Se ne parlò anche in “Testuale, rivista di critica della poesia contemporanea” al n. 31-32 (si consulti fra l’altro il sito web www.testualecritica.it). Si trattava di una brevissima sintesi che ripresa qui ci aiuta a ricordare in poche righe (sebbene per i lettori avveduti  e di quella generazione possano essere superflue) la straordinaria vicenda culturale e di ricerca che ha segnato la vita e la poesia dell’autrice: protagonisti con lei Geltrude Stein, Adriano Spatola, Corrado Costa, Giorgio Manganelli… il Mulino di Bazzano… la rivista sperimentale “TAM TAM”… la rivista “il verri” di Luciano Anceschi… i viaggi e la permanenza negli Stati Uniti… e infine (ma non infine!) il lunghissimo determinante soggiorno in India…

Vale la pena trascrivere ancora, ai fini anche di questo nostro articolo, una considerazione autentica dell’autrice sull’esperienza della meditazione e sul rapporto di comunione con se stessi, con l’altro e con gli oggetti

… far scendere e stabilizzare nel sangue, nel midollo, nel DNA i pensieri e i concetti che abbiamo in testa allo stato aeriforme, volatilizzato e non ancorato, è esattamente lo scopo della meditazione. In un certo senso, allora, è come se anche Thornton Wilder [di cui Niccolai aveva descritto l’entusiasmo per la Stein] avesse subìto il potere pervadente della scrittura della Stein, recependolo come meditazione. Inoltre, sempre in meditazione, il tentativo di ognuno è quello di portare la mente oltre il ‘pensiero discorsivo’, quella sorta di pollaio di impulsi che, come certi spaghi inutilizzabili, ci ritroviamo sempre nella testa: voglio questo, non voglio quello, devo fare questo, devo ricordare quest’altro, non mi piace questo, mi piace quello, ecc., e oltre la ‘concettualizzazione’ (che è ciò che sto facendo io mentre scrivo, e che fate voi che mi state leggendo) per raggiungere l’’assorbimento’ (la prima vera vacanza della mente!), una sorta di radiosa e intuitiva pace interiore nella quale la mente sembra oscillare leggermente come una barchetta sull’acqua.

Si è detto di una prima vita, e di una seconda a partire dal’esperienza buddista. Leggendo l’introduzione di Milli Graffi e seguendo via via la storia delle poesie complete in Poemi & Oggetti, si può ipotizzare che, almeno dal punto di vista squisitamente poetico (visivo e concettuale), si dia in realtà una sola coerente vita. Una sola coerente idea di ricerca segnica, concettuale, scritturale e visuale.

Ci sono innanzitutto da considerare (dopo il romanzo d’esordio del 1966 Il grande angolo edito da Feltrinelli) le concrete astrazioni oggettuali concepite in armonia con le sperimentazioni di TAM TAM. Milli Graffi (preceduta da una altrettanto sapiente prefazione di Stefano Bartezzaghi e dalla presentazione della collana “fuoriformato” da lui diretta  di Andrea Cortellessa), nella sua introduzione a Poemi & Oggetti cataloga con intelligente acribia critica circa 140 oggetti riprodotti fotograficamente, quando non si tratti di operazioni fotografiche vere e proprie:
«Ho fortemente voluto includere in questa antologia Poema & Oggetto [la cui prima edizione è del 1974 per “Geiger”, la casa editrice collegata al Mulino di Bazzano e diretta da Maurizio Spatola, fratello di Adriano], che potrebbe apparire come un’opera prevalentemente visiva, perché in realtà rappresenta un punto di svolta decisivo nella ricerca dell’Autrice sul linguaggio. Questa volta non va [come per le precedenti opere di scrittura] a scavare nell’infinita variabilità dell’orizzonte semantico delle parole [fra nonsense e ambiguità significanti e ironie in parte ludiche in parte anche aggressive], ma vuole affrontare il rapporto che si stabilisce tra la scrittura e la realtà».

Ecco allora, solo per fare qualche esempio, “scultura”, una macchina da scrivere con il nastro incartocciato che sforna un foglio spiegazzato con la scritta “poema”  (la poesia come insignificanza logica?); la  Parola POEMA riportata in prospettiva su un “setaccio” (titolo dell’opera); una ammasso di spilli, sopravanzati da uno spillo vero infilato nella pagina:  “poema tautologico”.  Un’altra macchina da scrivere questa volta tipograficamente disegnata con il foglio che trascrive poema, nell’originale un vero foglio bianco infilato in un taglio praticato all’altezza del carrello e fissato con lo scotch sul verso della pagina.  L’ammasso dei caratteri di whole che formano una texture: titolo “whole: intero, hole: buco”… L’oggetto e il suo senso o nonsenso (in quanto evasivamente riprodotto con l’inganno grafico) gioca con la scrittura e i suoi alfabeti, le sue linee, i suoi spazi… la sua  pienezza d’assenza aperta alle infinite ambiguità, come avveniva per gli spazi vuoti fra le colonne nel tempio di Sanjusangen do di Kyoto. Si instaura fra oggetti e alfabeti, coniugati secondo un’idea di poema (più paragrafi o campitoli di un lungo percorso), una dialettica, non descrivibile né analizzabile, che viene più o meno inconsciamente dalle discusse ipotesi linguistiche di referente-significante-significato (Saussure) e dallo schema preconcettuale, la parola che si fa (Brandi). Ma è proprio qui, ancora una volta, l’aperta ambiguità della poesia e del segno che vuole evidenziarla senza successo, poiché la poesia è una dismisura sensualmente recepibile, mai concretamente spiegabile, come gli oggetti stessi, isolati da ogni contesto se non quello fantasmatico, nella impossibilità delle loro riproduzioni e delle loro analogiche spazialità.

Di qui, dopo innumerevoli altre esperienze scritturali, alcune ancora visuali - in particolare, solamente per fare qualche sporadica citazione Humpty Dumpty (poesia concreta - 1969) e Webster Poems (poesie in inglese con riferimento al Webster, famoso vocabolario americano - 1971-1977) - , nel 1982 ecco i famosi Frisbees (poesie da lanciare), Frisbees di coda e d’occasione (1985), Frisbees, lunghe e brevi (1988-2004), Frisbees della vecchiaia (2001-2011).  Milli Graffi, per iniziare le sue analisi testuali, ci illumina in poche righe per altro assai acute e esaustive sulla natura dei Frisbees : «Si presentano come brevi e fulminanti focalizzazioni di piccoli eventi quotidiani marginali, frammenti, lampi, guizzi di un senso subalterno o, se vogliamo, anche alternativo al senso comune, sotterraneo e occulto, volutamente irrisorio, fragile, ma imprevedibilmente tenace e allegramente corrosivo». Al di là degli stessi Frisbees tuttavia si può notare che è questa la marca complessiva e coerente del segno poetico di Giulia Niccolai: perciò si osa rifiutare la distinzione fra la vita prima e quella dopo l’esperienza buddista. Costanti sono comunque, l’alternanza al senso, comune e occulto nell’osservazione meditata della cose minime. Non senza sovente, se non proprio sempre irrisione, almeno felice e leggera ironia: a questo proposito si rimanda al saggio di Eloisa Guarracino, “Un epico-comico vero. Sulla parola epico-mica in Giulia Niccolai, pubblicato in “Testuale” n.49, e consultabile integralmente anche in web al sito della rivista www.testualecritica.it

Dei Frisbees si  possono qui, ovviamente, proporre solo alcuni esempi lanciati (!) in tempi diversi dal 1982 al 2011:

Una volta / aprendo il frigorifero / è capitato anche a me di dire: / “C’è qualcosa di marcio in Danimarca”.

La poesia / va da tute le parti / e così fo io. / Laudata sia.

Una delle ragioni per cui / da ragazza ho fatto la fotografa / è anche quella / di essere sempre dietro la macchina fotografica / e mai davanti. / (Infatti chi fotografa / non viene quasi mai fotografato). / Non allo specchio, / ma nelle fotografie che mi ritraevano / distinguevo la paura sul mio volto.

Coltivare il linguaggio come l’orto. / Coltivare l’orto come il linguaggio. / Raccogliere i piselli e le taccole / mi ricorda la correzione delle bozze. / Come gli errori, /  non si riesce mai a individuarli tutti. / Per svista ne rimangono sempre un paio sulla pianta.

Ogni tanto / mi capita di leggere / in brutta / un Frisbee / che non capisco. / O che non capisco più. / O che non capisco ora. / E allora? / Allora / non lo metto in bella.

Stampati / i Frisbees / andrebbero / tanto distanziati / da permettere a chi lo vuole / 8358618 / di scrivere i propri / negli spazi bianchi.

Carissimi / date in premio / una foto di Man Raj / o di Man Ray / a chi /  (leggendo il vostro annuncio su la Repubblica) / capisce che Man Raj / non è Man Raj / ma è Man Ray? / P.S. Il migliore amico è sempre Duchamp.

Col tempo / la sofferenza / diventa conoscenza. / Ma anche. / Col tempo / la conoscenza / diventa sofferenza.

Di sofferenza / ne ho a sufficienza  / ma ho sempre fame di conoscenza.

Ma quando sei sola, anche l’ombra / di un sorriso scatena i sospetti / degli altri passeggeri del vagone / quando te la scorgono in volto. / Sorridevo così, vagamente, ripensando / alla frase che mi aveva detto al telefono / la segretaria del commercialista / proprio prima che uscissi di casa. / Cinguettando felice, tono efficiente, / in codice giovanil-finanziario mi ave / informato:  “Signora, il suo look è in credito!”. / Non avevo capito. Mi aveva allora spiegato / che quest’anno non ho IRPEF da pagare. / In metro sorridevo al pensiero che le due / generazioni che ci separano, quei 40 anni / di differenza, hanno in realtà il peso di anni-luce . / Perché è probabile che, da parte mia, non riuscirei mai / a dire qualcosa che riesca a far sorridere lei.

……………

A questo punto vorrei suggerire un minuto di silenzio.

……………

Quel minuto di silenzio è durato cinque anni perché ora siamo nel 2010, di anni ne ho settantacinque e ho smesso di scrivere da allora. Ho smesso perché non ne sento più il bisogno e mi sembra addirittura di essermi liberata di qualcosa. Del bisogno di esprimermi ? …

Dico a un amico informatico, Giuliano Severi, sono molto contenta perché il libro me lo presenta Bartezzaghi. Chi? Chiede lui, il calciatore?

Solo brevi, pochi Frisbees, forse non del tutto significanti per cogliere l’andante, negli anni, della scrittura di Giulia Niccolai. Andrebbero tutti, non solo questi, ma tutti, riletti alla ricerca delle infinite (perciò impossibili da cogliere sufficientemente!) intime ragioni linguistiche, personali, strettamente meditative, rivelatrici e poetiche. Ciascuna segno profondo di un mondo minimale che insieme ad altri minimali mondi crea uno, o più, universi senza limiti accertabili.

Forse ora, qui, si può semplificando (ma non tanto semplicemente), cogliere la dismisura del nostro pensiero, dei nostri pensieri, che si affollano e si con-fondono  – guardando ai minimi oggetti e a noi stessi – in ogni attimo, ogni minuto, ogni ora del giorno, ogni giorno degli anni. Della vita.
                                                                        Gio Ferri

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