lunedì 18 febbraio 2013

Gioco di invarianti in Camilla Borghese



Presso la Galleria Spazio Nuovo, Roma

Un lavoro sull’architettura della città di Roma, quello di Camilla Borghese, motivato da una necessità interiore, da quel sostrato che configura un sé non concettualizzato, che opera come desiderio, e in modo tanto forte da portare a uno studio appassionato e serissimo, è il focus della spirale della ricerca effettuata sugli edifici romani, a partire dai monumenti romani per giungere a quelli situabili cronologicamente a cavallo delle due guerre (De Renzi, Moretti, Libera), ma non configurantesi su un doppio binario, giacché non si tratta che di un allargamento della sfera di riflessione visiva e di esplorazione di un oggetto impegnativo quanto lo è quello architettonico e, inoltre, così variamente composito e stratificato come quello romano, di cui alla Borghese interessa mettere in luce il gioco di invarianti.

Seguendo l’artista su questa pluralità focale, in cui di volta in volta vengono messi sotto osservazione alcuni elementi: intere, facciate, viste parziali, dettagli - e addirittura di difficile individuazione a causa dell’ambiguità del reperto per il ravvicinatissimo punto di vista - si assiste per questi ultimi a un prodigioso cambio di scala, in cui il dettaglio vale per il tutto. Con enorme difficoltà, anzi, si risalirebbe all’intero: lo sguardo si affossa nelle pozze di ombra liquida procurata alla colonna di granito da scalfitture e abrasioni, mentre rifluisce via lungo la curvatura addensandosi come mercurio nero su questa materia oramai refrattaria alla storia,  quasi ricondotta alla sua origine da uno scatto che la sorprende, che la immortala prima che divenisse altro: elemento architettonico.


Che, d’altronde, l’ombra sia trattata a pieno titolo come materia compositiva, ce ne eravamo resi subito conto proprio notando la sua assenza nella fotografia che ritrae il portico del Palazzo dei Congressi di A. Libera all’Eur, dove la Borghese ha voluto far emergere per mezzo di una luce indiretta il segno progettuale insieme alla raffinatezza dei materiali, lo sgombro spazio delimitato da linee: una scatola volumetrica ritmata dalla stessa luce. E, ancora, per restare nell’ambito del particolare, si veda la fotografia che ritrae il basamento della Chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane del Borromini, la quale  non presenta l’architettura come costituita da un abaco di forme, ciascuna avente la sua autonomia, ma  altresì scavata in un unico blocco di pietra, affiorata montagna in una sola notte, nata direttamente dalla terra. Nel senso che uno dei caratteri del monumentale è la sua incidenza nella nostra esistenza come qualcosa che oltrepassi la soglia di artificio, divenendo connaturale, ordine e scala di riferimento quasi fisico. Riferirsi al monumentale, dunque, per trarne la misura e dall’architettura desumere ordine, ritmo, rapporto: quasi un logos visuale. Nella magnifica dorata tessitura delle colonne del Tempio di Adriano in piazza di Pietra emerge, protagonista,  la luce, usata come fosse una superficie riflettente su cui il ritmo della cesura dei rocchi dilapida la sostanza lapidea degli stessi per farsi oleoso miraggio. Ed è dalla rete concettuale fin qui fissata che vogliamo passare a quella che pare essere una rappresentazione dell’oggetto architettonico vista sub specie aeternitatis.


Immagine di perfetto nitore e magnificamente scolpita da sfumatissime gradazioni o minerali concrezioni d’ombra è quella che chiude in uno scrigno percettivo non scardinabile la facciata di Palazzo Barberini (edificato con il concorso di Maderno, Borromini e Bernini), la quale, bloccata in una luce aurea che la congela come in una bolla atemporale, ci appare fissata nell’eternità del non afferrabile: la bellezza certo non ama nemmeno i confronti: è assoluta in sé e questo Camilla Borghese lo evidenzia con alcune fotografie che ritraggono il monumento anziché come ente, come disarticolato, inframmezzato ad altro materiale, coabitante con gli elementi spuri con i quali è costretto a venire a patti: ringhiere, tettoie, coperture, corrimano, vegetazione, ove forse più forte è l’accezione di monumento come reperto. In ogni caso, la Borghese, sempre scegliendo quelle inquadrature che presentano dell’architettura le regole classiche della progettazione: simmetria, rapporto tra pieni e vuoti, proporzioni armoniche.   Alla legge soggiacente nel manufatto architettonico che emerge vieppiù nella serie di fotografie delle facciate di edilizia residenziale di cui parlavamo all’inizio, la Borghese presta il suo sguardo per trasmetterci la folgorante sintesi di un connubio che non è quello fra soggetto e monumento, ma è il frutto di  un riconoscimento che si materializza nell’altro fattosi pietra.

                                                              Rosa Pierno

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