lunedì 1 aprile 2013

“Scene” di Jeannette Montgomery Barron presso la Libreria Galleria Carla Sozzani, Milano



“Scene” è il titolo della mostra di ritratti fotografici in bianco e nero di influenti personalità degli anni ’80 della cultura underground newyorkese che Jeannette Montgomery Barron presenta a Milano dal 6 aprile in Corso Como 10 e di cui alcuni risalgono appunto al 1982, quando la fotografa iniziò la sua carriera appena ventenne. Collezione che si arricchita per oltre un ventennio, presentando anche ritratti di artisti italiani. Vi scorgiamo scrittori, artisti, attori, musicisti entrare direttamente in relazione non con l’obiettivo – quasi tautologica affermazione di sé – ma in un dialogo con l’essere umano che guarderà le foto.  La capacità della Montgomery Barron è appunto quella di catturare il desiderio di colui che si sta facendo fotografare, il desiderio di essere immortalato in qualcosa di tanto effimero quanto di scolpito, in un momento, cioè, carico di  spontaneità quanto mentalmente determinato. In questo modo, pertanto, il mistero appare spontaneo, familiare, e ciò che è familiare si tramuta nuovamente in ineffabile. Ha presa un dialogo in cui la persona non appare mai in una posa ingessata, sebbene la mimi: queste fotografie sono in costante moto di desiderio, sia della fotografa verso la propria opera sia del personaggio ritratto nei confronti della rappresentazione che vuole dare di se stesso.


La fotografia ha i suoi mezzi precipui per giungere a formalizzare l’aspetto della realtà: uno dei più usati da Jeannette è l’ombra, con le rade pozze di luce che si formano nella sua assenza o nei suoi cali di tensione.  L’ombra concorre a costruire la personalità di colui che si sottopone al ritratto fotografico e colui che viene ritratto desidera per questo scoprirsi nella rappresentazione che l’artista crea tramite il mezzo fotografico. Ecco, dunque, che egli scopre di sé prima ancora che il suo volto, il corpo vigoroso affossato nell’ombra, com’è nel caso di Julian Schnabel, mentre cunei e spigoli taglienti rendono la fotografia uno specchio rotto e ombre di oggetti improbabili si proiettano sul muro  o, com’è nel caso di Ryuichi Sakamoto sotto la pioggia,  in una foto mossa dall’acqua e dall’impossibilità di tener ferma un’immagine di sé che si vuole in continua dissolvenza. Ma si veda anche lo splendido ritratto di William Burroughs  tutto frammenti di ombra e luce, tutto un affondare nel nero e un galleggiare nel lucore, tutto moto e stasi senza soluzione di continuità. Ritratti non privi di una loro metafisica  valenza: John Lurie la cui ombra si proietta tre volte sulla parete in scale diverse con un sassofono sospeso in aria non proiettante ombre o Rainer Fetting che sembra voler creare/replicarsi nel modello che ha dinanzi. Ma anche certe costruzioni di interni in cui più spiccatamente le persone che li abitano si fondono assumendone l’aurea: è il caso del magistrale ritratto di Beatrix Ost-Kuttner e Adelheid Ost  ove le pose, questa volta volutamente manierate, riverberano il dialogo tra le sfere del lampadario ottocentesco e quello di marmo e vetro poggiate sul tavolo da pranzo.  Qualsiasi mezzo è buono, e ne esistono infiniti nella faretra di Jeannette Montgomery Barron, per tratteggiare il ritratto di chi vuole manifestarsi  e sottrarsi, contemporaneamente, attraverso la fissità di una definizione.


                                                               Rosa Pierno 

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