domenica 26 maggio 2013

Mario Fresa “Uno stupore quieto”, Stampa, 2012

Non si dimentica mai, leggendo la prosa colloquiale di Mario Fresa formulata nel suo ultimo libro  Uno stupore quieto, Stampa, 2012, che se ne sta percorrendo il versante squisitamente poetico, anche se il tema è quello di una delle possibilità più inquietanti e inaccettabili dell’essere umano: la sua follia, la sua violenza. Ora, appunto, non ci si faccia trarre in inganno da una cornice in cui s’inscena un dialogo smozzicato e costruito anche con espressioni banali, di uso spicciolo, quotidiano, poiché esse sono innestate nel discorso senza soluzione di continuità, in una tessitura tanto attenta quanto impalpabile nei passaggi delle sue nuances, realizzata con una trama di brevissimi fili, non linearmente tessuta.

Le inserzioni del discorso diretto sono come il bilanciamento dell’altra orrida realtà, evocata anch’essa per accenni, per frasi appena abbozzate, allusive, ove forse solo il titolo denuncia la realtà della scena acquerellata. Usiamo questo termine per accennare a una caratteristica della tecnica coloristica che lascia zone vuote, non colorate, spesso sovrapposte. Così che la rappresentazione del fatto viene calata in un’atmosfera da acquario, percepita tramite frammenti, zolle, macchie. Il linguaggio manifesta appieno la sua duttilità nella fucina di Mario Fresa. Di un fatto violento si può fare un resoconto allampanato, stupefatto, inconsapevole persino per colui che ha compiuto il delitto. Il passaggio dalla realtà, quella che consegniamo ogni giorni al regesto dell’insignificante, al linguaggio, viene così ad essere ammantato da parole che nemmeno si accostano alla irrappresentabilità del fatto:  che qui, fra l’altro, se è pretesto del dire, lascia immediatamente il posto alla sua non conoscibilità: le motivazioni che trasformano un essere umano in belva.

Se difficile è comprendere, altrettanto lo è accettare. Non si penetra in simili sfere: in nessun modo, con nessun approccio. In questo senso, compito della poesia, è di segnalare la zona impervia. La pervasività sonora sopravanza sempre il narrato, denunciando la volontà di ergersi in primo piano rispetto a tale trama, per circoscrivere l’area, come farebbe un poliziotto con il corpo riverso, tramite gesso. Di contrassegnare la zona in cui nemmeno il linguaggio penetra, il logos non raggiunge lo scopo, ma l’accoramento, la pietà, il disagio, lo sdegno paiono ancora più fortemente ispessirsi in coro, acquisendo in tal modo un rilievo di grande forza comunicativa.

Un fascio di sentimenti, qualche riferimento a luoghi, a fatti, o oggetti (il condominio, il cinema, il portafogli): un pugno di personaggi accomunati da un quotidiano che diviene osceno per un immotivato atto di violenza, giacché mai la violenza può avere motivo, ci circonda e ci stringe alla gola. Che Fresa abbia voluto sfidare il genere del racconto in versi non sorprende se si considera il fatto che non è qui la poesia che va verso la prosa, ma la prosa che si arrischia su un terreno impervio, che viene fagocitata dal lirico, frantumata dall’irrazionale, squassata nella sua linearità, svuotata psicologicamente (poiché anche i personaggi sono ridotti a maschera) e solo sopravanza una sorta di canto lieve, di stupita calma, di “uno stupore quieto”.

D’altra parte, non si troverà in queste poesie nessun concetto, nessun significato preconfezionato: in questa apertura si misura il maggior grado di immissione del reale nel linguaggio. Una sorta di congelamento del pensiero per ascoltare le voci nel mentre agiscono, compiono l’esecrabile atto, pronunciano l’ultima parola o elargiscono l’ultimo sorriso. La maestria di Mario Fresa si dispiega nel tratteggio di una banalità o ricorsività del quotidiano che ci tocca nella carne, che riconosciamo come nostra e che perciò ci fa atterrire, ma è appunto nel niente che si coagula l’infame. Tale questione riguarda anche la storia, non solo la vita del singolo: la poesia allora ci avvisa: mai dismettere attenzione, mai adeguarsi al reale come se fosse scontato, mai credere che esista una realtà che possiamo considerare sotto controllo, prevedibile. Mai credere che la poesia ci dica qualcosa che già sappiamo.

                                                       Rosa Pierno

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