martedì 26 febbraio 2013

“Materia dell'apparire”, mostra di Renée Lavaillante presso la galleria La Nube di Oort, Roma


Dal 2 marzo al 23 marzo 2013 presso la galleria La Nube di Oort in via Principe Eugenio 60, Roma


Che cosa voglia dire rendere visibile l’invisibile lo vediamo negli avvincenti, coinvolgenti, notevolissimi disegni di Renée Lavaillante, grazie alla mostra realizzata da Cristian Stanescu nella sua galleria La nube di Oort, il quale ha voluto per la terza volta in Italia l’artista quebecchese. I disegni mostrano tre direzioni di ricerca: il primo gruppo intitolato Le crayon chercheur riguarda alcuni fogli di carta koreana in cui sono intrappolati pezzi di foglie, inserzioni vegetali, formanti rugosità e rilievi sulla superficie, a partire dai quali l’artista, chiudendo gli occhi e poggiando delicatamente la matita, con l’aiuto delle dita, traccia delle linee tra i rilievi, andando a delineare la mappa dei possibili percorsi. La lettura, non di un alfabeto Braille, ma di un oggetto, delle sue caratteristiche – in questo caso delle vie tracciate dalla matita, mentre in altri disegni l’artista ha utilizzato le caratteristiche materiche dello strumento (ad esempio, la matita collegata all’estremità di un giunco flessuoso) – che vengono replicate come in negativo dalla punta di grafite, va a definire una mappa che segna limiti e deviazioni, che si adatta a ciò che trova, che giunge a circuire tutti i rilievi intercettati e individua le vie piane, anche molto tortuose, fra essi. Se guardare le opere d’arte conducesse necessariamente a rintracciare un’analogia, andremmo subito a intercettare quella relativa alla visione zen come ricerca e adattamento, come soluzione e alternativa. Dove centrale è il ricorso alle capacità interiori, mai disgiunte dalla percezione del reale.

Inoltre, da questa tramatura di linee che corrono in alcune zone del foglio emerge un’esperienza non slegata dalla materia, ma che, anzi, muove alla ricerca della sua persistenza. L’io, imbattendosi nell’ostacolo, ingegnandosi nel superarlo, trova contemporaneamente i suoi limiti e saggia la sua resistenza, le sue capacità interiori. In una sola parola: accede alla conoscenza. Dunque, è chiaro che per Renée Lavaillante il disegno è un’esperienza conoscitiva, prima che creatrice di realtà e di visioni: il disegno come linea che traccia, definisce, limita, costruisce e testimonia, non disgiunto, perciò, dalla sfera concettuale.

Il secondo gruppo di disegni, denominati Sinopia, dal nome che si attribuiva ai disegni preparatori per gli affreschi, affronta un diverso aspetto del problema relativo alla rappresentazione dei concetti, i quali se operano sempre un’astrazione rispetto al reale, non necessariamente devono perdere la referenza con esso, tant’è che in arte non può disgiungersi la materia dall’ideazione. Il rapporto tra visibile e invisibile qui viene costruito attraverso la realizzazione di un cerchio con una pasta di gesso trasparente, che resta per questo invisibile, sulla carta. Poi, con l’aiuto di linee serrate e parallele, l’artista cerca di renderne visibile la presenza, che si rivela per gradi con la progressione delle linee, grazie alla rugosità del gesso che viene intercettato dal passaggio dell’inchiostro e che diviene figura sul foglio. Le linee, alcune sottili, alcune più grosse, rendono in tal modo visibile non soltanto una cosa esistente, avente uno spessore e una materia, ma soggiacente, nascosta, impostando così il problema del rapporto tra visibile e invisibile come qualcosa ancora appartenente al piano dell’immanenza, che insiste, cioè, sul piano della sostanza e del particolare. Il cerchio, inoltre, appare come l’immagine più polivalente e aperta, contemporaneamente non figurativa e allusiva, legata in ogni caso a forme reali. Si noti anche che, in alcuni fogli, le linee sono chiuse due a due, specificando la costante attenzione estetica, la soglia interpretativa del disegno, il suo autonomo valore. Invero, il fruitore avverte fortemente che la penna sembra tracciare sotto completa dettatura mentale e quello che si vede apparire sul foglio sembra la rappresentazione di ciò che risiede esclusivamente nella mente. Questi disegni, dunque, valgono come la mappa d’una figura che abbiamo dentro, fanno apparire ciò che è riposto nelle nostre cellule, danno una rappresentazione del mentale, tout court, sono alfine pura apparizione!

E con quest’ultima parola, quasi fosse una chiave di volta, ci avviciniamo al grande disegno che occupa un’intera parete, e che si differenzia da quelli appartenenti alla due serie che abbiamo presentato per una particolare straordinaria misura, forse di un possibile sfondamento nel trascendentale, poiché in riferimento a qualcosa che è dato ‘vedere’ per assenza. Questo disegno, che sembra un probabile passaggio per esprimere ciò per cui non abbiamo concetti, è costruito con matita nera tessente un tratteggio incrociato atto a determinare una superficie completamente nera e spessa sui bordi dell’immagine da cui nessuna luce può filtrare, ma che, gradatamente avvicinandosi al centro del disegno, si sfarina in alone, lasciando presto spazio al solo colore bianco della parete, alla sola luminosità. Ma abbagliante. Questo straordinario effetto ci consegna letteralmente una rivelazione: l’ottenersi percettivo di un entità per cui non abbiamo parole, ma che sappiamo essere pura visione!

                                                            Rosa Pierno

venerdì 22 febbraio 2013

Giuseppe Borrone su "L'Intervallo" di Leonardo Di Costanzo


Regia: Leonardo Di Costanzo; Origine: Italia - Svizzera - Germania, 2012; Durata: 1h 30’; Distribuzione: Istituto Luce Cinecittà; Genere: Drammatico; Cast: Francesca Riso, Alessio Gallo, Carmine Paternoster, Salvatore Ruocco; Sceneggiatura: Maurizio Braucci, Mariangela Barbanente, Leonardo Di Costanzo; Fotografia: Luca Bigazzi; Montaggio: Carlotta Cristiani; Data uscita in Italia: 5 settembre 2012


Una ‘giornata particolare’ nella vita di Salvatore e Veronica, due adolescenti napoletani costretti a crescere troppo in fretta. In un contesto di degrado fisico e morale, i protagonisti del film d’esordio nel cinema di finzione di Leonardo Di Costanzo – apprezzato regista di documentari, di origine ischitana – si trovano a condividere lo spazio di uno stabile fatiscente e abbandonato. In attesa che giunga sera, e il boss del quartiere decida le sorti della ragazza, accusata di uno sgarro alle logiche criminali del clan.
“L’intervallo” mette a confronto, come tanti film italiani di questa stagione – da “Un giorno speciale” a “Io e te” – due personaggi, isolati dal resto del mondo, in una sospensione temporale che è il preludio a una maturazione definitiva, al superamento della linea d’ombra che separa la stagione dei sogni dal crudo approccio nel regno degli adulti. Un carceriere improvvisato, timido e impacciato, e una ragazzina sveglia e precoce ingaggiano un ‘duello’ verbale ed emozionale ricco di sfumature psicologiche, tra chiusure introspettive e ribaltamenti. Apparentemente vittima e carnefice, ma in realtà entrambi prigionieri di un sistema sociale che soffoca la speranza e i desideri di libertà. Alla violenza manifesta di “Gomorra” si sostituisce, forse ancor più dolorosa e amara, il clima di sopraffazione e rassegnazione che spinge al compromesso e alla convivenza forzata. Ribellarsi alla camorra e alla sua mentalità diventa una sfida troppo ardua da ingaggiare, nella solitudine della periferia e nell’assenza delle istituzioni.
Dai trascorsi di documentarista Di Costanzo recupera l’impatto forte della realtà nella vita quotidiana e uno sguardo asciutto e minimale nella costruzione narrativa. Nel passaggio al racconto di finzione, il regista napoletano introduce un metodo di preparazione alla recitazione attentamente controllato e studiato, attraverso rigorosi laboratori e lunghe sedute di prove. Ingaggiando per i ruoli principali due ragazzi napoletani alle prime armi cinematografiche, Francesca Riso e Alessio Gallo, ma capaci di tenere la scena come provetti professionisti.
L’edificio diroccato in cui agiscono i due protagonisti diventa il palcoscenico di una favola nera, attraversata da misteriose e simboliche apparizioni, dal fantasma di una ragazza suicida agli uccelli notturni che svolazzano nel giardino, trafitto dai raggi di sole che penetrano tra le fessure e le crepe dei muri scrostati. La scenografia dell’ex manicomio Bianchi, con la sua struttura labirintica e la vegetazione incolta circostante, è il terzo personaggio di un film teso e coinvolgente, dove l’angoscia montante per il destino della ragazza è scandita dal tempo che si accorcia e dal giorno che si chiude inesorabile. Rivelatosi a Venezia nella sezione “Orizzonti”, “L’intervallo” avrebbe meritato ampiamente il Concorso.

                                                                            Giuseppe Borrone

lunedì 18 febbraio 2013

Gioco di invarianti in Camilla Borghese



Presso la Galleria Spazio Nuovo, Roma

Un lavoro sull’architettura della città di Roma, quello di Camilla Borghese, motivato da una necessità interiore, da quel sostrato che configura un sé non concettualizzato, che opera come desiderio, e in modo tanto forte da portare a uno studio appassionato e serissimo, è il focus della spirale della ricerca effettuata sugli edifici romani, a partire dai monumenti romani per giungere a quelli situabili cronologicamente a cavallo delle due guerre (De Renzi, Moretti, Libera), ma non configurantesi su un doppio binario, giacché non si tratta che di un allargamento della sfera di riflessione visiva e di esplorazione di un oggetto impegnativo quanto lo è quello architettonico e, inoltre, così variamente composito e stratificato come quello romano, di cui alla Borghese interessa mettere in luce il gioco di invarianti.

Seguendo l’artista su questa pluralità focale, in cui di volta in volta vengono messi sotto osservazione alcuni elementi: intere, facciate, viste parziali, dettagli - e addirittura di difficile individuazione a causa dell’ambiguità del reperto per il ravvicinatissimo punto di vista - si assiste per questi ultimi a un prodigioso cambio di scala, in cui il dettaglio vale per il tutto. Con enorme difficoltà, anzi, si risalirebbe all’intero: lo sguardo si affossa nelle pozze di ombra liquida procurata alla colonna di granito da scalfitture e abrasioni, mentre rifluisce via lungo la curvatura addensandosi come mercurio nero su questa materia oramai refrattaria alla storia,  quasi ricondotta alla sua origine da uno scatto che la sorprende, che la immortala prima che divenisse altro: elemento architettonico.


Che, d’altronde, l’ombra sia trattata a pieno titolo come materia compositiva, ce ne eravamo resi subito conto proprio notando la sua assenza nella fotografia che ritrae il portico del Palazzo dei Congressi di A. Libera all’Eur, dove la Borghese ha voluto far emergere per mezzo di una luce indiretta il segno progettuale insieme alla raffinatezza dei materiali, lo sgombro spazio delimitato da linee: una scatola volumetrica ritmata dalla stessa luce. E, ancora, per restare nell’ambito del particolare, si veda la fotografia che ritrae il basamento della Chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane del Borromini, la quale  non presenta l’architettura come costituita da un abaco di forme, ciascuna avente la sua autonomia, ma  altresì scavata in un unico blocco di pietra, affiorata montagna in una sola notte, nata direttamente dalla terra. Nel senso che uno dei caratteri del monumentale è la sua incidenza nella nostra esistenza come qualcosa che oltrepassi la soglia di artificio, divenendo connaturale, ordine e scala di riferimento quasi fisico. Riferirsi al monumentale, dunque, per trarne la misura e dall’architettura desumere ordine, ritmo, rapporto: quasi un logos visuale. Nella magnifica dorata tessitura delle colonne del Tempio di Adriano in piazza di Pietra emerge, protagonista,  la luce, usata come fosse una superficie riflettente su cui il ritmo della cesura dei rocchi dilapida la sostanza lapidea degli stessi per farsi oleoso miraggio. Ed è dalla rete concettuale fin qui fissata che vogliamo passare a quella che pare essere una rappresentazione dell’oggetto architettonico vista sub specie aeternitatis.


Immagine di perfetto nitore e magnificamente scolpita da sfumatissime gradazioni o minerali concrezioni d’ombra è quella che chiude in uno scrigno percettivo non scardinabile la facciata di Palazzo Barberini (edificato con il concorso di Maderno, Borromini e Bernini), la quale, bloccata in una luce aurea che la congela come in una bolla atemporale, ci appare fissata nell’eternità del non afferrabile: la bellezza certo non ama nemmeno i confronti: è assoluta in sé e questo Camilla Borghese lo evidenzia con alcune fotografie che ritraggono il monumento anziché come ente, come disarticolato, inframmezzato ad altro materiale, coabitante con gli elementi spuri con i quali è costretto a venire a patti: ringhiere, tettoie, coperture, corrimano, vegetazione, ove forse più forte è l’accezione di monumento come reperto. In ogni caso, la Borghese, sempre scegliendo quelle inquadrature che presentano dell’architettura le regole classiche della progettazione: simmetria, rapporto tra pieni e vuoti, proporzioni armoniche.   Alla legge soggiacente nel manufatto architettonico che emerge vieppiù nella serie di fotografie delle facciate di edilizia residenziale di cui parlavamo all’inizio, la Borghese presta il suo sguardo per trasmetterci la folgorante sintesi di un connubio che non è quello fra soggetto e monumento, ma è il frutto di  un riconoscimento che si materializza nell’altro fattosi pietra.

                                                              Rosa Pierno

giovedì 14 febbraio 2013

Gio Ferri su Meditazione e poesia come rivelazione. Le cose e i segni nella scrittura di Giulia Niccolai


* Giulia Niccolai, Poemi & Oggetti (tutte le poesie), Ed. “Le Lettere”, Firenze 2012
   Giulia Niccolai, Cos’è ‘poesia’, Edizioni de “il verri”, Milano 2012




In Cos’è ‘poesia’ Giulia Niccolai inizia il suo discorso, che è insieme un saggio critico e un racconto di vita, con la constatazione: Ciò che è poesia per uno, non lo è necessariamente per un altro: Giampiero Neri sostiene addirittura che poesia sia “ipotesi”, e io sono d’accordo con lui. L’osservazione innanzitutto ci conferma nell’idea, per altro non sempre riconosciuta, che la parola poetica, o il segno artistico, si manifestino secondo un (non)codice d’ambiguità. Vale a dire in dialettica contrapposizione con i codici codificati o codificabili della retorica, del discorso comune, del ‘buon senso comune’, della prassi contingente e  infine della comunicazione.  Forma quest’ultima di un rapporto sempre finalizzato ad un risultato utilitaristico: comunicare per convincere l’altro della bontà più o meno convinta della mia asserzione. Con uno scopo ben determinato, se non aggressivo, al di là di ogni mera ipotesi, perciò sostanzialmente menzognero. Non è la menzogna rappresentativa della poesia e dell’arte (di cui si è superficialmente abituati a dire) che ci interessa, bensì la verità di un segno anche silente di comunione, di empatia, di quella che gli antichi definivano coinonía. Poesia come ricerca di senso (senso e sensibilità, carnale e mentale e cosale) piuttosto che segno come segnale e quindi come significato. Significato ovviamente impossibile se ci muoviamo nell’ambito di forme ipotetiche. Poesia, quindi, come verità, non comunicativamente verificabile, bensì profondamente sentibile.

Nell’ambito dei processi psicoanalitici potremmo percepire la coinonía come una dialettica conoscitiva e appassionata, seppur silente, fra inconscio e inconscio. Ma rifacendoci a Jung dovremo prendere atto che «un certo strato per così dire superficiale dell’inconscio è senza dubbio personale. Esso poggia tuttavia sopra uno strato più profondo che è innato e che chiamiamo inconscio collettivo». È in questo spazio atemporale (rispetto alle storie icastiche o dell’inconscio personale), che poi è lo spazio dei miti, che rivivono e si trasformano (metamorfosi) i segni ambigui della poesia, le loro comunioni, la loro eternale presenza nella dismisura fantasmatica delle assenze. Sono i territori che ci rendono sempre attuali, seppur inconsciamente, i riti della poesia di ogni tempo e di ogni luogo. Si può osare di credere che ciò possa comunque coinvolgerci in quell’ ambiguo nulla prolifico, perché tacito ma creativo, dell’idea di poesia propostaci da Giulia Niccolai – come tutti sappiamo artista, poetessa concettuale prima, monaca buddista poi dal 1990.

Le assenze come spazio della poesia quale sopra intesa, trovano evidenza in un racconto della poetessa che parafrasiamo: … Eravamo a Kioto nel grande tempio Sanjusangen do, famoso per le 1001 statue di Bodhisattva i figli del Budda. 10 file di sculture in legno, ognuna di 100 personaggi quasi a grandezza naturale… Il monaco ci spegò che Sanjusangen do in giapponese significa 33. Come mai 33? Il monaco proseguì: il salone che ospita le statue dei 1001 è sorretto da 35 colonne 33 sono gli spazi vuoti tra le colonne…:

Capii subito che filosoficamente, / il fatto di dare il nome al tempio / in base al numero degli spazi vuoti / dunque a ciò che non c’è, / può essere interpretato / come la garanzia più elegante, / squisitamente Zen, / di non escludere mai niente, / e nessuno.

Dal niente e dal nessuno e visitati dalla meditazione, nasce la poesia, che deve essere  - o aggiungiamo è senz’altro – rivelazione.  La rivelazione che viene dalle coincidenze e dalle epifanie fra vicende e persone e oggetti e spazi. Queste, svela Giulia Niccolai, sono le cause fondamentali per cui iniziai un cammino spirituale… ed è come se la mia stessa vita fosse divenuta rivelazione: poesia.  Aggiungendo una ulteriore giustificazione la poetessa ci rende conto del fatto che: se non avessi trovato il Buddismo a cinquant’anni dopo l’ictus cerebrale, non credo che avrei avuto la forza di riprendermi… Sento chiaramente di dovere questa rinascita e questa meravigliosa ‘seconda’ vita di rivelazioni… al buddismo… dopo m’è risultato chiarissimo il fatto di aver già ricevuto insegnamenti dai lama in vite precedenti, delle quali io, prima, non avevo memoria.

Possiamo citare piccola ma significativa parte del testo Meditazione 2, dalle Meditazioni, uno dei percorsi di cognizione, riferibile, questo, alle rivelazioni dell’arte:

Un’incisione, netta, verticale / un “taglio di Fontana” / «la non rappresentazione / in favore della creazione / di sensazioni spaziali» /  – dice il Manifesto -  / e anche «il fatto di passare / a un altro piano dietro la tela, / per andare oltre ciò che è percepito»… /  l’apertura dell’occhio della mente  / …/ in grado di spaziare.

In Meditazione 5 rivela, a noi, e a se stessa:
… lì in quel campo coperto di neve / sotto terra, in un buio denso /  e neutrale: un chicco di grano…  / Questione di attimi e l’emozione / si trasforma in timore riverente:  / mi sento sopraffatta dalla forza / smisurata di quel seme, / una forza immane legata / a quella cosmica… La visione non può essere spiegata / a parole, il suo effetto  è stato quello / di aver vissuto per un attimo / l’armonia universale, l’interconnessione / di tutte le cose. / L’enigma divenuto / rivelazione?

La ‘prima’ e la ‘seconda’ vita… Oppure un’unica vita? Una possibile risposta può venirci dalla complessiva lettura del saggio, o racconto, lettura che deve essere parallela tuttavia alla lettura di Poemi & Oggetti – Poesie complete. Un percorso del quale si fa guida e garante, con una eccezionale introduzione, la poetessa e critico Milli Graffi, come è noto, fra l’altro, responsabile della redazione della storica e insieme attualissima rivista il verri.


Di questo percorso è fondamentale, citato con appropriati sviluppi critici da Graffi,  il romanzo di Giulia Niccolai Esoterico biliardo (Archinto ed., Milano 2001). Se ne parlò anche in “Testuale, rivista di critica della poesia contemporanea” al n. 31-32 (si consulti fra l’altro il sito web www.testualecritica.it). Si trattava di una brevissima sintesi che ripresa qui ci aiuta a ricordare in poche righe (sebbene per i lettori avveduti  e di quella generazione possano essere superflue) la straordinaria vicenda culturale e di ricerca che ha segnato la vita e la poesia dell’autrice: protagonisti con lei Geltrude Stein, Adriano Spatola, Corrado Costa, Giorgio Manganelli… il Mulino di Bazzano… la rivista sperimentale “TAM TAM”… la rivista “il verri” di Luciano Anceschi… i viaggi e la permanenza negli Stati Uniti… e infine (ma non infine!) il lunghissimo determinante soggiorno in India…

Vale la pena trascrivere ancora, ai fini anche di questo nostro articolo, una considerazione autentica dell’autrice sull’esperienza della meditazione e sul rapporto di comunione con se stessi, con l’altro e con gli oggetti

… far scendere e stabilizzare nel sangue, nel midollo, nel DNA i pensieri e i concetti che abbiamo in testa allo stato aeriforme, volatilizzato e non ancorato, è esattamente lo scopo della meditazione. In un certo senso, allora, è come se anche Thornton Wilder [di cui Niccolai aveva descritto l’entusiasmo per la Stein] avesse subìto il potere pervadente della scrittura della Stein, recependolo come meditazione. Inoltre, sempre in meditazione, il tentativo di ognuno è quello di portare la mente oltre il ‘pensiero discorsivo’, quella sorta di pollaio di impulsi che, come certi spaghi inutilizzabili, ci ritroviamo sempre nella testa: voglio questo, non voglio quello, devo fare questo, devo ricordare quest’altro, non mi piace questo, mi piace quello, ecc., e oltre la ‘concettualizzazione’ (che è ciò che sto facendo io mentre scrivo, e che fate voi che mi state leggendo) per raggiungere l’’assorbimento’ (la prima vera vacanza della mente!), una sorta di radiosa e intuitiva pace interiore nella quale la mente sembra oscillare leggermente come una barchetta sull’acqua.

Si è detto di una prima vita, e di una seconda a partire dal’esperienza buddista. Leggendo l’introduzione di Milli Graffi e seguendo via via la storia delle poesie complete in Poemi & Oggetti, si può ipotizzare che, almeno dal punto di vista squisitamente poetico (visivo e concettuale), si dia in realtà una sola coerente vita. Una sola coerente idea di ricerca segnica, concettuale, scritturale e visuale.

Ci sono innanzitutto da considerare (dopo il romanzo d’esordio del 1966 Il grande angolo edito da Feltrinelli) le concrete astrazioni oggettuali concepite in armonia con le sperimentazioni di TAM TAM. Milli Graffi (preceduta da una altrettanto sapiente prefazione di Stefano Bartezzaghi e dalla presentazione della collana “fuoriformato” da lui diretta  di Andrea Cortellessa), nella sua introduzione a Poemi & Oggetti cataloga con intelligente acribia critica circa 140 oggetti riprodotti fotograficamente, quando non si tratti di operazioni fotografiche vere e proprie:
«Ho fortemente voluto includere in questa antologia Poema & Oggetto [la cui prima edizione è del 1974 per “Geiger”, la casa editrice collegata al Mulino di Bazzano e diretta da Maurizio Spatola, fratello di Adriano], che potrebbe apparire come un’opera prevalentemente visiva, perché in realtà rappresenta un punto di svolta decisivo nella ricerca dell’Autrice sul linguaggio. Questa volta non va [come per le precedenti opere di scrittura] a scavare nell’infinita variabilità dell’orizzonte semantico delle parole [fra nonsense e ambiguità significanti e ironie in parte ludiche in parte anche aggressive], ma vuole affrontare il rapporto che si stabilisce tra la scrittura e la realtà».

Ecco allora, solo per fare qualche esempio, “scultura”, una macchina da scrivere con il nastro incartocciato che sforna un foglio spiegazzato con la scritta “poema”  (la poesia come insignificanza logica?); la  Parola POEMA riportata in prospettiva su un “setaccio” (titolo dell’opera); una ammasso di spilli, sopravanzati da uno spillo vero infilato nella pagina:  “poema tautologico”.  Un’altra macchina da scrivere questa volta tipograficamente disegnata con il foglio che trascrive poema, nell’originale un vero foglio bianco infilato in un taglio praticato all’altezza del carrello e fissato con lo scotch sul verso della pagina.  L’ammasso dei caratteri di whole che formano una texture: titolo “whole: intero, hole: buco”… L’oggetto e il suo senso o nonsenso (in quanto evasivamente riprodotto con l’inganno grafico) gioca con la scrittura e i suoi alfabeti, le sue linee, i suoi spazi… la sua  pienezza d’assenza aperta alle infinite ambiguità, come avveniva per gli spazi vuoti fra le colonne nel tempio di Sanjusangen do di Kyoto. Si instaura fra oggetti e alfabeti, coniugati secondo un’idea di poema (più paragrafi o campitoli di un lungo percorso), una dialettica, non descrivibile né analizzabile, che viene più o meno inconsciamente dalle discusse ipotesi linguistiche di referente-significante-significato (Saussure) e dallo schema preconcettuale, la parola che si fa (Brandi). Ma è proprio qui, ancora una volta, l’aperta ambiguità della poesia e del segno che vuole evidenziarla senza successo, poiché la poesia è una dismisura sensualmente recepibile, mai concretamente spiegabile, come gli oggetti stessi, isolati da ogni contesto se non quello fantasmatico, nella impossibilità delle loro riproduzioni e delle loro analogiche spazialità.

Di qui, dopo innumerevoli altre esperienze scritturali, alcune ancora visuali - in particolare, solamente per fare qualche sporadica citazione Humpty Dumpty (poesia concreta - 1969) e Webster Poems (poesie in inglese con riferimento al Webster, famoso vocabolario americano - 1971-1977) - , nel 1982 ecco i famosi Frisbees (poesie da lanciare), Frisbees di coda e d’occasione (1985), Frisbees, lunghe e brevi (1988-2004), Frisbees della vecchiaia (2001-2011).  Milli Graffi, per iniziare le sue analisi testuali, ci illumina in poche righe per altro assai acute e esaustive sulla natura dei Frisbees : «Si presentano come brevi e fulminanti focalizzazioni di piccoli eventi quotidiani marginali, frammenti, lampi, guizzi di un senso subalterno o, se vogliamo, anche alternativo al senso comune, sotterraneo e occulto, volutamente irrisorio, fragile, ma imprevedibilmente tenace e allegramente corrosivo». Al di là degli stessi Frisbees tuttavia si può notare che è questa la marca complessiva e coerente del segno poetico di Giulia Niccolai: perciò si osa rifiutare la distinzione fra la vita prima e quella dopo l’esperienza buddista. Costanti sono comunque, l’alternanza al senso, comune e occulto nell’osservazione meditata della cose minime. Non senza sovente, se non proprio sempre irrisione, almeno felice e leggera ironia: a questo proposito si rimanda al saggio di Eloisa Guarracino, “Un epico-comico vero. Sulla parola epico-mica in Giulia Niccolai, pubblicato in “Testuale” n.49, e consultabile integralmente anche in web al sito della rivista www.testualecritica.it

Dei Frisbees si  possono qui, ovviamente, proporre solo alcuni esempi lanciati (!) in tempi diversi dal 1982 al 2011:

Una volta / aprendo il frigorifero / è capitato anche a me di dire: / “C’è qualcosa di marcio in Danimarca”.

La poesia / va da tute le parti / e così fo io. / Laudata sia.

Una delle ragioni per cui / da ragazza ho fatto la fotografa / è anche quella / di essere sempre dietro la macchina fotografica / e mai davanti. / (Infatti chi fotografa / non viene quasi mai fotografato). / Non allo specchio, / ma nelle fotografie che mi ritraevano / distinguevo la paura sul mio volto.

Coltivare il linguaggio come l’orto. / Coltivare l’orto come il linguaggio. / Raccogliere i piselli e le taccole / mi ricorda la correzione delle bozze. / Come gli errori, /  non si riesce mai a individuarli tutti. / Per svista ne rimangono sempre un paio sulla pianta.

Ogni tanto / mi capita di leggere / in brutta / un Frisbee / che non capisco. / O che non capisco più. / O che non capisco ora. / E allora? / Allora / non lo metto in bella.

Stampati / i Frisbees / andrebbero / tanto distanziati / da permettere a chi lo vuole / 8358618 / di scrivere i propri / negli spazi bianchi.

Carissimi / date in premio / una foto di Man Raj / o di Man Ray / a chi /  (leggendo il vostro annuncio su la Repubblica) / capisce che Man Raj / non è Man Raj / ma è Man Ray? / P.S. Il migliore amico è sempre Duchamp.

Col tempo / la sofferenza / diventa conoscenza. / Ma anche. / Col tempo / la conoscenza / diventa sofferenza.

Di sofferenza / ne ho a sufficienza  / ma ho sempre fame di conoscenza.

Ma quando sei sola, anche l’ombra / di un sorriso scatena i sospetti / degli altri passeggeri del vagone / quando te la scorgono in volto. / Sorridevo così, vagamente, ripensando / alla frase che mi aveva detto al telefono / la segretaria del commercialista / proprio prima che uscissi di casa. / Cinguettando felice, tono efficiente, / in codice giovanil-finanziario mi ave / informato:  “Signora, il suo look è in credito!”. / Non avevo capito. Mi aveva allora spiegato / che quest’anno non ho IRPEF da pagare. / In metro sorridevo al pensiero che le due / generazioni che ci separano, quei 40 anni / di differenza, hanno in realtà il peso di anni-luce . / Perché è probabile che, da parte mia, non riuscirei mai / a dire qualcosa che riesca a far sorridere lei.

……………

A questo punto vorrei suggerire un minuto di silenzio.

……………

Quel minuto di silenzio è durato cinque anni perché ora siamo nel 2010, di anni ne ho settantacinque e ho smesso di scrivere da allora. Ho smesso perché non ne sento più il bisogno e mi sembra addirittura di essermi liberata di qualcosa. Del bisogno di esprimermi ? …

Dico a un amico informatico, Giuliano Severi, sono molto contenta perché il libro me lo presenta Bartezzaghi. Chi? Chiede lui, il calciatore?

Solo brevi, pochi Frisbees, forse non del tutto significanti per cogliere l’andante, negli anni, della scrittura di Giulia Niccolai. Andrebbero tutti, non solo questi, ma tutti, riletti alla ricerca delle infinite (perciò impossibili da cogliere sufficientemente!) intime ragioni linguistiche, personali, strettamente meditative, rivelatrici e poetiche. Ciascuna segno profondo di un mondo minimale che insieme ad altri minimali mondi crea uno, o più, universi senza limiti accertabili.

Forse ora, qui, si può semplificando (ma non tanto semplicemente), cogliere la dismisura del nostro pensiero, dei nostri pensieri, che si affollano e si con-fondono  – guardando ai minimi oggetti e a noi stessi – in ogni attimo, ogni minuto, ogni ora del giorno, ogni giorno degli anni. Della vita.
                                                                        Gio Ferri

domenica 10 febbraio 2013

Marco Furia “La parola dell'occhio” L’Arca felice, 2012



Computare gli elementi presenti in un quadro  in maniera polita, ottocentesca, con parole che hanno la lucentezza dell’argenteria in una cristalliera e che si susseguono in una sequenza verificabile visivamente, perché ogni testo è associato al quadro che si sta descrivendo, dà una sensazione di falsa sicurezza, sebbene del quadro vengano descritti elementi effettivamente presenti, i quali danno luogo a una sorta di narrazione, tutta aderente al piano psicologico. Infatti, d’improvviso, lo scarto, lo scollamento straniante e la pagina diviene il luogo di un dispiegamento concettuale che si situa sul limitare del filosofico e del letterario, non più del visivo. Comprendiamo ora che quella descrizione, così aderente all’immagine, era servita solo a caricare la molla, che, libera dall’ingranaggio, sta liberamente correndo. 

Lo scarto ci fa comprendere come Marco Furia utilizzi il quadro per sperimentare il modo in cui  i sedimenti culturali e conoscitivi tesaurizzati possano essere riattivati in forma creativa attraverso un meccanismo visivo che proprio con la parola ha una relazione di estraneità. Il coraggio con cui Furia affronta il quadro è dello stesso grado della libertà che si concede. Siamo in presenza di uno svelamento. Il processo creativo letterario si espone nella sua arbitrarietà rispetto al referente (e a un referente di tale riconosciuta tradizione: da G. Tiepolo a Turner, da Canaletto a Cézanne) e regge l’impatto. La strada è spianata, ora il legame lo si deve rintracciare nello sviluppo argomentativo che ha le sue regole propriamente letterarie, ma avulse da un binario tracciato. Il testo infatti mostra autonomia dai generi canonici (prosa d’arte, critica d’arte). Il lirismo delle definizioni è come raggelato dalla predella concettuale agganciata dopo avere abbandonato il terreno della superficie pittorica, proprio mentre le argomentazioni sono rivolte a divellere i concetti per aprirli alla molteplicità del senso. “Non è facile dipingere l’attimo fugace, ma non meno  difficile è ritrarre l’attimo che contiene tempo, che intenso perdura”.

Anzi, meglio, il testo letterario di Furia partecipa di tutti i generi. Compie evoluzioni nel suo farsi e il passaggio al ragionamento filosofico si tiene affianco il buon senso, l’attaccamento al percepire: “Un’intensa sobrietà, ovunque diffusa, non esclude alcun singolo elemento che, individuato con chiarezza, trova nel dipinto la sua giusta collocazione”. Una larvale distanza non colmabile, dicevamo, resta tra il referente e il testo che da esso sarebbe originato, si potrebbe dire addirittura che la posizione del periodo, relazionato ai singoli quadri, sia indifferente, quando non si tratti ovviamente della descrizione del quadro: “La coscienza di un uomo può raggiungere dimensioni davvero immense e il gesto cosciente non soltanto rappresenta, soprattutto è”.

Basti questo a testimoniare quanto il testo si ponga in maniera autonoma rispetto al pretesto che gli ha dato luogo, pur mantenendo sempre una relazione ambigua con esso. Una sorta di assemblage di aforismi di natura spesso etica, indicanti un orizzonte più ampio dell’occasione pretestuosa del godimento di un’opera d’arte: “Vivere un’immagine affinché altri, anche  a distanza di secoli, la vivano a loro volta: un dono che davvero non ha prezzo”. Siamo in presenza di un sistema in cui la saggezza è l’insieme che contiene gli altri insiemi e gestisce forme di vita, pretendendo per sé un ruolo fondante. “La vita propria dell’opera d’arte non è mai fine a se stessa, poiché si offre al rapporto con l’altro, allo scambio”. Pensiamo, dunque, che per Marco Furia sia centrale la considerazione del dono e della relazione con l’altro da sé, quello intraducibile in altra forma e che gli fa dire: “L’arte, quella vera, non si dimentica mai degli altri” soltanto in vista di quest’altro orizzonte. Va a configurarsi in questo modo una visione dell’arte collegata alla conoscenza e perciò al destino dell’uomo.

                                                         Rosa Pierno

mercoledì 6 febbraio 2013

Carla Stroppa “Fantasmi all’opera” Moretti&Vitali, 2013



Carla Stroppa disegna due fuochi con il suo ultimo lavoro Fantasmi all’opera Moretti&Vitali, 2013. Disegna due fuochi nell’intento di circuitare nella medesima figura l’intera sfera dell’arte. Disegna due fuochi mentre si riferisce ai disagi, alle dissociazioni di un individuo rispetto a se stesso e al suo ambiente. Il passaggio non è di facile realizzabilità, giacché, se a volte si possono dare nella persona sia il normopatico che l’artista, non necessariamente l’arte è risposta al disagio, né è possibile procedere all’identificazione dell’effettivo raggiungimento della forma artistica nell’ambito della psicanalisi. Lo indica la stessa autrice quando rileva che per Freud “all’opera letteraria non viene riconosciuta quella libertà e autonomia di ispirazione che fa di lei una creazione originale con valori intrinseci, non un sintomo”. Anzi, in Freud, il personaggio letterario è visto come esemplificazione tout court “di un aspetto patologico della mente del suo autore”, di un caso clinico, ove tutto, di fatto, appare sempre spiegabile e senza resto, mentre per Carla Stroppa, psicoanalista junghiana, non ha nessun senso cercare di ricondurre l’arte “nella “via maestra” della psicoanalisi”. Se relazione si può tessere sarà quella di rintracciare in tale “dono poetico”, ciò che “oltrepassa qualsiasi sistemazione teorica”.

Più precisamente, per Carla Stroppa si tratta di ricondurre alla polisemia, alla molteplicità delle interpretazioni la lettura dei sintomi, al fine di rispettare proprio la creatività da cui essi nascono. Punto centrale di tutta l’analisi della psicanalista è quello di ricondurre “il vero e il falso, la realtà e la finzione” alla loro inestricabile complessità e dunque alla ricchezza del loro significato simbolico, strada che è, appunto, percorsa da Jung, il quale “vedeva nell’opera d’arte la traccia di un’eccedenza creativa e spirituale capace di pescare nei meandri più oscuri e lontani della memoria della specie e nello stesso tempo di spingersi oltre per creare nuove forme, nuovi linguaggi, nuovi simboli”. L’obiettivo perorato da Carla Stroppa è quello di insistere sul ruolo fondamentale dell’immaginazione, definendo il normopatico come colui che non vuole sapere nulla del suo mondo interiore e non è conscio di vivere “una vita impersonale e senza afflato”: in una sorta di “morte in vita che cova nel suo intimo l’ombra amara della radicale infelicità e la rigidità della difesa costante dal rischio di soffrire”. Di contro è l’estasi, la felicità, la capacità di comprendere e di affrontare, le quali si agganciano con le facoltà immaginative, che divengono vere e proprie “bussole del profondo”, connessioni di senso, possibilità concrete di ribaltare le situazioni psichiche.

L’inconscio non è, pertanto, solo un serbatoio ribollente le cui pulsioni devono essere contenute, ma è soprattutto un bacino di energie da cui attingere. Nell’indicare la sfera immaginativa come risorsa nell’analisi, la psicoanalista junghiana  sostiene il suo discorso con una messe di citazioni ed esempi ricchi quanto adeguati, ove la letteratura, la fiaba, il mito più che fare da sostegno alla teorizzazione psicanalitica, vengono convocati in quanto esemplificazioni di azioni e soluzioni possibili, divenendo centrali perché terreno di coltura delle risorse umane, quelle afferenti al proprio sé in contrapposizione con i modelli omologati della società. Con esempi lampanti, evidenzia come la presenza dei fantasmi interiori (fantasmi erotici, fantasmi coercitivi e impositivi), possano essere addirittura cavalcati per dirottare la produzione di senso verso una più consapevole conoscenza delle dinamiche del sé, “in un processo di trasformazione”, se non di normalizzazione, che può condurre verso un recupero delle proprie potenzialità. In ultima analisi: “dall’egocentrismo e dai conflitti nevrotici che isolano e lacerano il filo della grande tessitura umana, dal dolore annichilente, all’amore per l’altro e per la vita in quanto tale”.

Carla Stroppa indica che se non è possibile un integrale recupero della disponibilità di se stessi, delle proprie capacità ed energie, è anche vero che questa non è che l’unica strada a disposizione per  accedere a un’esistenza soddisfacente. E in questo senso è invero avvincente scoprire insieme all’autrice le potenzialità che si sprigionano dalla sua analisi. Infatti, il metodo messo da lei in atto procede attraverso non un recupero della razionalità, ma un attraversamento dell’illusione, del fondo magico della mente carico di mito, di magia, di immagini, in una sola espressione: del processo di simbolizzazione, che poi è il medesimo attraversamento compiuto dalla parola poetica. In ogni caso nella ricerca di quella mobilità e di quelle strategie differenzianti, non sistemiche, che aiutano a comprendere il nostro situarci nel mondo e ci aiutano a mettere a punto il modo  in cui possiamo abitarlo al meglio.

Afferrare dunque le opportunità creative vorrà dire afferrare la chance per non cadere nel patologico quando un sistema razionale diviene oppressivo, e anzi “per intraprendere quel volo trasformativo intrinsecamente creativo che avrà come fine non la netta distinzione tra realtà e fantasia, come auspicava Freud, ma al contrario la sua sana, intrinseca – in una parola: poetica –  riconnessione”. Sarà la medesima porta “che ha segnato l’entrata nel labirinto” a segnarne anche l’uscita, poiché ancora con le medesime forze si dovrà attraversare l’ignoto o l’esperienza dolorosa e ricostruire “il proprio valore e il proprio posto nella scena”. Ma questo ovviamente vale per tutti, per tutti essendo importante “procedere oltre l’alienante conformismo dell’indifferenziazione che spegne ogni scintilla di soggettività creativa”.

                                                              Rosa Pierno

sabato 2 febbraio 2013

Adorno “Long Play e altri volteggi della puntina” Castelvecchi, 2012



L’ottima introduzione di Massimo Carboni alla raccolta di articoli e testi per conferenze di Theodor W. Adorno  Long Play e altri volteggi della puntina, Castelvecchi, 2012, intende calorosamente evidenziare come il filosofo tedesco non abbia inteso azzerare il valore della cultura di massa, ma abbia cercato, pur criticandone gli aspetti retrivi e infidi, di sottolineare i vantaggi presenti nella diffusione degli strumenti culturali attraverso le nuove tecnologie. Carboni, intende, per l’appunto, se non rovesciare, mettere in dubbio l’idea pregiudiziale di un Adorno che disprezzi l’arte di massa e la musica di consumo, poiché necessario gli appare distinguere fra l’appiattimento dei valori culturali e la diffusione degli stessi.    Anzi, precisa che Adorno considera necessario affinare i propri strumenti per cogliere l’efficacia di tali fenomeni, spendendosi per analizzarne tutti gli aspetti: “riconoscimento che un medium non è soltanto un medium, che ogni apparecchio è già il suo stesso uso, che la forma tecnologica genera le sue stesse ricezioni, le funzioni sociali, i comportamenti individuali e gli stili di vita che vi sono connessi, crea le proprie modalità di utilizzo, modella e in parte predecide l’orizzonte di senso entro il quale si produce e si esercita”.

Il Long play è appunto un mezzo tecnologico che consente una diffusione musicale impensabile prima della sua apparizione e Adorno ne tesse le lodi. Lo stesso Carboni rileva che Adorno, non abbassando mai la guardia sulla potenza della banalità nella ricezione di massa e sulla sua autoindulgenza “votata all’obbedienza e rassegnata alla mercificazione”, insista allo stesso tempo però nel non contrapporre arte e seduzione, musica colta e musica di consumo e rifletta sul “progressivo dissolversi dei confini tradizionali tra i generi, preparando in buona sostanza il terreno alle attuali considerazioni estetiche sulla medialità”. Nella musica commerciale si può trovare, inoltre, quella “immediatezza e genuinità” che è andata persa in quella superiore, recando in sé l’”equilibrio tra la potenza dell’impersonale e la persistenza dell’individuale”. Sebbene ci sia anche un’altra ragione per cui Adorno apprezzi in modo particolare l’introduzione del Long play: libera “dall’accidentalità delle false feste operistiche, permettendo l’esecuzione della musica in forma ottimale e il recupero di qualcosa della sua forza e intensità andate perdute nei teatri. L’oggettivazione, vale a dire la concentrazione sulla musica come vero oggetto dell’opera”.

Nella raccolta affiora un altro tema particolarmente importante:  il ruolo e lo scopo della critica. I bravi critici trovano solo in sé il terreno in cui coltivarsi e la fortuna di essere seguiti o meno non ha mai potuto nulla sulla loro capacità di realizzare nella maniera più propria la funzione della critica. Adorno, enuclea le caratteristiche che definiscono tale funzione al suo più alto grado, i compiti sociali, le intenzionalità interpretative, le capacità necessarie. Il testo, contenuto nella raccolta, Riflessioni sulla critica musicale verte sulla necessità per un critico musicale di conoscere la musica, di saper leggere la notazione musicale, altrimenti, va da sé,  parlerà d’altro (“la questione della tecnica e quella della verità del contenuto non possono essere separate l’una dall’altra”). La critica “è una forma propria e non è  un semplice mezzo” e “ha una funzione obiettiva ed essenziale e non semplicemente una comunicativa”. E poiché la spiritualità delle opere d’arte, cioè la loro verità, non è data in modo definitivo, ma è piuttosto un processo, il critico vi si deve immergere non adducendo “dall’esterno alcun criterio di giudizio fisso, fermo, già pronto”. Deve accertarsi dei livelli formali raggiunti e quando questo accada è già sufficiente a estirpare il pregiudizio sulla relatività dei giudizi artistici, visto che deve fondarsi sull’”adeguatezza dei mezzi agli scopi”.

Dopo aver debellato il pregiudizio sulla relatività storica, Adorno, abbatte anche quello sull’apporto dell’individualità del critico poiché altrimenti “non sussisterebbe alcun rapporto  tra il soggetto che conosce e giudica artisticamente l’opera e la cosa stessa”. Ma nei confronti della pratica professionale del critico, il filosofo tedesco, fa scoccare un’ultima freccia: “Capacità critica è l’obbligo morale di portare la differenziazione fino all’estremo“ e di non stemperarla per piaggeria o convenienza, poiché l’opera d’arte è un fatto sociale e storico e di questo il critico deve dare evidenza, estraendola dalla sua pietrificazione e  “ritrasformandola in quel campo di forze” il quale, solo, rende la “critica vitale”.
                                                            
                                                                                   Rosa Pierno