martedì 5 luglio 2016

"Cuffie deserte" di Gilberto Isella




Se mai compiere un viaggio è visitare luoghi sconosciuti, essi si  trovano compiuti nella loro estraneità solo al di fuori della nostra mente. È, infatti, essa ad apporgli il sigillo di cosa conosciuta, arpionata, calpestata, ricondotta alla nostra intimità, conservando, solo per puro diletto, angoli di esarcebata resistenza o di tale levigatezza da mostrarla  refrattaria persino alla percezione elementare, alla sensazione fisica. Per quest'ultima via, si danno, nel testo di Gilberto Isella, quelle sacche di citazionismo letterario indicanti zolle di inaccessibilità, campioni di lunare essenza, e la cui indefinitezza dà luogo alla vera e propria escursione in territori non altrimenti restituibili che costituiscono, forse, il momento in cui la descrizione del luogo è quanto più vicina al luogo reale.

Così ci pare funzioni il testo "Cuffie deserte" nato dall'occasione di un viaggio intorno al Mar Morto,  che fra assaggi di dialoghi reticenti fra la guida locale e il viaggiatore, offre un altro spunto di variazione del medesimo: quanto si può percepire/ interiorizzare/pensare/sentire di un terreno che calpestiamo per la prima volta? La letteratura, certamente, non s'incaricherà di fornire pillole dorate e amuleti rassicuranti, e meno che mai nei testi dello scrittore svizzero, non imbastirà descrizioni da cartolina i cui colori siano ritoccati per rendere il luogo prodigioso, anzi, con quel tarlo che sempre mina una vena poetica di fantasmagorico talento, Isella si diparte spesso dal luogo in cui si trova per depistaggi in aree perlomeno non attinenti.

Dove siamo? Qual'è il paesaggio di riferimento? L'ubiquità, essa sì, è manifesta! Con incursioni in settori politici, sociali, culturali, si viene ad aggiungere alla già incerta cartografia, al suo mistero, la zavorra del complesso. I modi in cui narrare un luogo, zigzagando, disseminando, anziché piantar bandiera, sono esposti in questa che viene a costituirsi come una mappa di citazioni, di riferimenti di cui è difficile persino cogliere l'analogia originante. Sarebbe il luogo, forse, dove tutto origina, o forse quello in cui ogni cosa collassa. Da scena nasce scena, per "nuove, bislacche coordinate dello sguardo" in cui l'accumulo, se non delinea un filo rosso che lega le immagini l'una all'altra, almeno costituisce la quantità da cui, forse una volta ritornati a casa, si potrà dedurre l'essenza del luogo.

Che il luogo divenga metafora del linguaggio è metamorfosi che si svela sotto i nostri occhi di lettori: "commento di commenti fino a intravedere sterili contrade, le parole-locuste che ruotano con ossessione intorno a un vischioso cimelio metamorfico, a una  bislunga  bara chiamata Mar Morto." Ma non è per dire qualcosa sul linguaggio. Anzi è esattamente l'operazione opposta che qui s'inscena: con il linguaggio spiegare un luogo, usare le regole linguistiche per addomesticare la belva che si dà alle nostre percezioni come  una chimera.

                                                                                     Rosa Pierno

CUFFIE  DESERTE

                                                                Terre d’outre-nuit que le soleil arrache à
                                                                      la méditation et aux épines du doute
                                                                                                                    Edmond Jabès



   Oltrepassata  la costa in dissolvenza del Mar Morto, le melme diventano strisce compatte di terriccio, scintillano. La strada vira a sudovest ma con  digressioni, tipo ampi tornanti che permettono di aggirare le zone più accidentate. Scarse, a dire il vero. I rilievi si disdicono, timide schiene d’asino e sentore di piattezza incombente, aridità generica e intercambiabile. Scorci di villaggi mimetizzati dietro canne, agavi e pallidi sicomori (biblici a quanto sembra) in lontananza, senza forare spazio. Né beduini né cammelli intorno. L’alfabeto geologico di questa landa è abbastanza atipico, direi senza qualità. Deserto faible, ‘pensiero debole’materializzato. Meglio così. Scenari privi di scenografie forti sono redditizi per immaginazione e  incubi. I Padri del Deserto, gli stiliti, Sant’Antonio insegnano. Mostri, chimere. Anche qui:  immondizia gettata sui cigli del nastro asfaltato installa sagome scheletrine - complici bianca luce e polvere, indefinitezza cromatica -  vedi anche un costolone dracomorfo, il drago distilla subitanee inquietudini, scuote le ali dentro la sonnolenza che ti sorprende nelle ore calde mentre in macchina attraversi questo desolato  territorio.
   Secondo antiche leggende, temibili creature s’annidano nel labirinto di grotte e  uadi che contornano il sito fantasma dell’antica città di Sodoma, maledetta dal Signore, non distante da qui. Basterebbero segnature incise su pietre e incrostazioni,  sgorbi e altre artificiose gibbosità a  irradiare quella lontana  maledizione. Ma attizzatoio di umor fantastico è anche l’immane archivio storico sepolto sotto dure rocce e sabbie. Clangori mai uditi filtrano dal suolo: echi di spedizioni e sanguinose battaglie, ribollimenti del cavalcare e battersi: ruote ittite e assire, frecce partiche, gagliardetti tolemaici e romani. L’antenna iperbolica s’attiva in ciascuno di noi.  Ma non è che per pochi battiti di palpebra, poi il fantastico s’incancrenisce. Svaniscono chimere, voci e cuffie d’ascolto divorziano, restano solo acusmi indeterminati. Fuggifuggi degli incantesimi, tinte e suoni omologati nel baulone del nulla.

 
   Siamo in tre sul pick-up marroncino tirato a lucido: Emilia, io e Yoram, la sagace guida askenazi messa a disposizione dall’agenzia di Tel Aviv. Il deserto del Neghev, appendice naturale del Mar Morto, “senza rischi per la vostra incolumità fisica e mentale” tiene a rassicurare Yoram, sfidando il sopore di noi due, “niente califfi intorno”.  La mia amica alterna acqua frizzante e caramelle al carmol, non scatta  foto dai due giorni  trascorsi sul mare. Si riassorbe, entra in circuiti di autoascolto. Lasciando che si consumino i giallastri banchi di noia - il visibile esterno –  forse medita sul bestseller portato nello zaino come un talismano, il romanzo Giuda di Amos Oz. Mi aveva già reso edotto, al riguardo: “Non esistono traditori e tradìti, Giuda non è Giuda, e probabilmente Cristo  nemmeno Cristo. Tutti siamo attori e complici di un piano universale  di cui s’ignora il senso. Non è detto che l’essere umano sarà redento. Shemuel, avvilito protagonista della storia, cerca fortuna in una nuova città del Neghev ”. “Ci tolga una curiosità, Yoram. Quante volte abbiamo attraversato pezzi di territorio palestinese, da Gerico a qui dove ci troviamo?”
  “Vi sto conducendo nella luce di Israele, e voi vi preoccupate delle sue ombre?”
   La macchina rallenta a uno dei rari incroci. Un cartello indicatore indica Be’er Sheva. Noi dobbiamo invece prendere per Mizpe Ramon. “Cosa ne pensa dello scrittore Oz?”, gli chiede Emilia. Un attimo di perplessità, si passa un fazzoletto sulla fronte: “Troppo astuto Oz, per riflettere l’animo autentico di questo paese”. Cambia subito tema. “Lo sapevate che il fondatore della nostra nazione, Ben Gurion, ha trascorso gli ultimi anni di vita nel Neghev?”

   L’incolumità mentale di noi due: e, al fine di salvaguardarla, come sbarazzarci di Yoram e degli spacciatori di viaggi. Per rendere l’idea, a bruciapelo: del viaggio in sé. Qui, per soprammercato, è come
                                                                         come passare da una cosa morta all’altra, frugare in una pentola vuota. Il Neghev? Ultimo vagone aggiunto al convoglio esplorativo solo per conquistarci quel triangolo isoscele di brullità che completa la carta di Israele. Bastava concludere col Morto, o volare direttamente a Elat sul Rosso. Emilia proponeva un simile bypass. Io esigevo invece ponderazione, mi appellavo a scritture, a segni capaci di sostituire vuoti panoramici, compensare transitorie e frigide emozioni. Mio intento: ricavare da una scodinzolante lista di appunti  un compiuto libro  di  viaggio. E le premesse -  spazio e tempo – dove cercarle? Metter mano con prudenza a storia e geografia? Meglio forse rovistare nelle sacche memoriali dell’io, affidarsi a quei
                                                                                                             quei  ritagli di perturbante (intimo, idiota per eccellenza ) che avevano consentito, poniamo a Joyce,  di mettere in moto l’Ulisse, straordinario poema del narciso leso. Sfilata di soggetti in divenire - tutti riversati in uno - che adombrano processioni di teschi, il passato remoto per il passato-futuro anteriore (o viceversa). Giacché il vero narciso adora intingere il proprio volto in qualche craniospecchio di cultura. Il funerale di Patrick Dignam, celebrato tra pirotecniche discese in biblioteche e birrerie da Ade, valga da paradigma. Segugi spirituali a ogni capoverso, certo, dign(am)ità còlte al volo durante la loro dispersione. Come dire
                                                                                                    come dire lo zigzagare, il disseminarsi del senso a mo’ di duna che si sfalda, commento di commenti fino a intravedere sterili contrade, le parole-locuste che ruotano con ossessione intorno a un vischioso cimelio metamorfico, a una  bislunga  bara chiamata Mar Morto. Distesa di malta salina che finge di portare in superficie ricordi ma è solo pozzo di annientamenti, mare scosceso in se stesso. Che eiacula preziose allegorie, ma non dispone neppure di una riva per accoglierle. E nemmeno simulacri di porti, e la sua fauna ittica fossile è virtualmente mostruosa, raffigurabile ieri e oggi in nere prosopopee di  bitume.
   Eppure è proprio lanciando lo sguardo a quella morta gora che qualcosa,  dalla cultura del silenzio, affiora verso di noi. Una domanda disarmata e disarmante,  la stessa del filosofo Derrida: “Sommes-nous des Grecs, sommes-nous des Juifs?” Insomma, da dove proveniamo, di quali impasti di luoghi e linguaggi siamo fatti? Domanda in standby, da millenni galleggiante - né su né giù - ma in quanto tale al riparo da usura. Ne era ben conscio il grande irlandese.


  Il lago Asfaltite, o Morto. “Amaro e infecondo”, scriveva Flavio Giuseppe, “ma per la sua leggerezza mantiene a galla anche gli oggetti più pesanti che vi siano gettati dentro. Quando Vespasiano si recò a visitarlo, ordinò di gettare in acqua alcuni che non sapevano nuotare, con le mani legate dietro la schiena, e tutti tornarono a galla come fossero spinti verso l’alto da un potente soffio” (De bello judaico, IV, 8).
   Pervenuti a quelle sponde, noi, due giorni fa. Yoram  approfitta per chiederci con sinuosa gentilezza un po’ di congedo. Ovvio. “Godetevi En Bokek. Non dimenticate di prendervi un bagno, certo l’acqua non è quella del Giordano, guai a immergervi la testa, ma ne scoprirete immediatamente i benefici”.
   En Bokek, ex pugno di casupole ora cittadina balneare, quattrocento metri sub limine. Complesso di alberghi lussuosi, a metastasi. I fanghi del Mar Morto, terapia ineguagliabile contro verruche, incartapecorito derma, invecchiamento. Cloruro bituminoso a profusione, scorrente in creme e pomate. I ricchi dannati della terra convengono qui. Mare da obitorio che ridarrebbe vita alle stoppie. Di fronte a noi i rilievi sulfurei della Giordania. L’albergo Hesed, gestito da joint-venture russo-israeliana, è uno dei più rinomati, dialettica di fitness e ottimismo culinario. Difficile raggiungere camera senza aver prima scavalcato palestre o tempietti rigenerativi. Gli ascensori: conventicola di accappatoi e ciabatte in fregola. Gommose istallazioni fitomorfe sui pianerottoli. Varcata la soglia e messa via la tessera magnetica, Emilia spalanca impulsivamente la porta finestra che dà sul mare. Il potente soffio dell’immagine che a noi sale e investe gli occhi ci esonera dal preannunciato rito d’appisolamento meridiano, ora è la ruah di un’altra scena
                      di un’altra scena a impostare nuove, bislacche coordinate dello sguardo. Dietro l’indolente vaevieni sulla litoranea, tra palme stenterelle e una striscia di spiaggia assolata, spicca lembo di mare. L’imago è fermatempo e  fermaspazio, anello chiuso del vedere, immobilità in se stessa iterata. “Mi sento come una cornice che sta per cedere”, esclamo. “Chiudi la bocca, e guarda lo spettacolo”, ribatte Emilia.
   Mare, pelle opalina dai riflessi calcinati. Osserviamo, lì infisse, testoline umane del tutto simili a boe, prigioniere di quel pellicolare elemento. Ciascuna al  suo posto, come se qualcuno le avesse sistemate nella platea di  uno spettrale teatro idrico. Dove si sono cacciati gli arti, dove pulsa il cuore? Come sono entrate, ce la faranno a uscire? Paiono foruncoli d’acqua, bolle di una statica emulsione.   Cupolette della morte.   E se l’acqua si mutasse in ghiaccio, contro ogni logica climatica? Mi viene in mente il nono cerchio dell’Inferno, il dantesco Cocìto, i traditori conficcati nell’eterno  ghiaccio metafisico.  Mi figuro il male condannato al suo definitivo, inamovibile algoritmo, allorché rien va plus. Ma di fronte a questa cefalocommedia, nell’era emancipata del post-tradimento, Giuda e tutta la catena dei suoi discepoli suonano come anacronismi.  Oggetti, semmai,  di un’estenuante  ermeneutica senza sbocco, come Oz lascia intendere. Forse il mal di vivere risiede proprio nella domanda “Chi siamo, da dove veniamo?”. Siamo tutti quanti teste blindate in quella obesa domanda, teste discese in una radura salinizzata dell’essere…
   “Muoviti, scendi con me a fare il bagno, ammesso che quell’acqua sia reale”. Desideriamo uno schianto qualsiasi, sbattiamo la porta uscendo.

   Ed ecco lo squarcio di mare  facciuto. È vero: adesso che le osserviamo da vicino, le teste galleggiano e sembrano perfino distribuire protuberanze intorno, parvenze medusee di gambe e braccia tese in anelito. L’essere con l’e maiuscola in aspettativa,  le sue questioni vicarie negli spogliatoi.  Non sono certo filosofi le persone in posa ironicamente ek-statica che punteggiano questo spazio-tempo murato, soltanto borghesi venuti qui per purgare il corpo. Sbarazzarsi di psoriasi, acni, cicatrici, rughe devastanti. Contrappunti cosmetici al mal di vivere. Impiastricciarsi di sale e asfalto, vagheggiando stupende architetture del sé. Qualcuno si è portato in acqua l’ombrellone, qualcun altro giornale e telecamera, consapevole che qui ogni cosa sta su. E i movimenti? Bracciate-boomerang. Sporgersi un po’ a destra un po’ a sinistra dal proprio loculo, ripiombare di nuovo al centro. Emilia, ottima nuotatrice in circostanze migliori, se la cava con capriole moderate e cantabili. Spingere acqua come fosse montagna, questo compete a me.
   Forse quell’affiorante immobilità è glossa postrema appesa al Vecchio  Testamento, allegoria vivente della statuificazione data in sorte fin dai primordi all’uomo-imago Dei. Yoram ci aveva avvertiti: “Ci troviamo nella regione di Sedom-Sodoma, ma della città distrutta dalla collera di Elohim non resta più nulla, a parte le concrezioni di sale e fosforo”.  Enigmatico, da non venirci a capo, l’episodio della moglie di Lot, che infranse il divieto dell’angelo di voltarsi verso la catastrofe della città maledetta, verso il cerchio di fuoco delle domande insostenibili: “Ma la moglie di Lot guardò indietro e divenne una statua di sale” (Gen.19, 24-26).  Non voltarti, Lot, non voltarti, Orfeo! Questo divieto infranto, replicato nei millenni, forse è il solo contrassegno d’esistere. L’esistere del girarsi verso l’improbabilità d’esistere.
   Per qualche lunghissimo minuto associati all’anonimo gruppo, passivi in sospensione sull’acqua plastica, piovuta da altro pianeta. Ci viene a noia presto. Tornati a proda, il nostro corpo odora di balsamo.  Bisogna però scongiurare corrosioni cellulari in agguato, rompere oscuri determinismi chimici, correre alle docce. Rapido eppur tenero declinare del sole, i villeggianti riprendono a sciamare.  Ci aspettano pastrami, falafel e focaccette al coriandolo, nella piccola trattoria con la sua passerella che entra in mare e scompare. Occorre mettere in conto un long drink.  Prima di coricarci, festeggiando il quarto di luna calante, giochiamo a tirarci addosso i cuscini.








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