lunedì 24 ottobre 2016

Giorgio Linguaglossa "Blumenbilder. Natura morta con fiori", Passigli Poesia, 2013



Se è vero che il dato reale esiste, che non lo si può eludere, e che ciò che ha natura mentale non esiste, pur tuttavia, Giorgio Linguaglossa nel suo  "Blumenbilder. Natura morta con fiori", Passigli Poesia, 2013, decide di stabilire la sua dimora poetica in una teatrale mente. Tuttavia, la storia, oculo privilegiato da cui osservare la scena, sebbene basata su fatti, documenti, testimonianze, essendo incentrata su una sorta di setaccio che nel suo espungere "le comparse / inutili", nel resuscitare "i fantasmi",  svolgendosi in uno spazio soggetto all'illusione del racconto, diviene il luogo in cui "parvenze" ed "essenze" sono ricondotte a simil destino, viene a costituire lo snodo privilegiato ove si attua lo scambio fra reale e ideale.

Sdoganando il noioso assedio di una realtà incombente e prevaricatrice, divelte le concatenazioni causa-effetto, "gli alberi spingono il vento", falcidiato il doveroso attenersi all'esclusivo binario percettivo, il poeta è ora libero di ricreare le sue molteplici immagini. Nell'enciclopedico palcoscenico lulliano, gli abitanti vi esistono in duplice copia, parvenze reiterate, ritratte, accennate, ombreggiate, intraviste. Il gioco degli specchi non è meccanismo che serva a confondere le acque, svalutando l'identità, quanto a moltiplicare le istanze del soggetto, il quale non può accontentarsi del suo reale aspetto, della abitudinaria lingua, dei domestici utensili aventi contemporanee forme. E vedremo con quale ricchezza, semantica e sintattica, Linguaglossa disponga intorno al lettore il magico castello in cui si troverà ad essere un effetto della lettura e protagonista a sua volta.

L'individuo, nell'affrontare il problema della storia, deve affondare gli stivali nel fango del Trecento, si deve zavorrare con le bisacce del Seicento, deve potersi riconoscere nei suoi avi e vedere la sua compagna sotto le sembianze, numerose quanto varissime, assunte dalle donne nei diversi ruoli assegnati loro dalle varie epoche, deve provare a immaginare come egli sarebbe stato se fosse vissuto in un'età che imponeva differenti abiti mentali. Costruire l'ambiente è fondamentale per farvi agire i personaggi. Ma liberarsi da tutto ciò che è mero orpello, potrebbe far scorgere la vera natura delle cose, la loro immutabile sostanza. Sarà da individuarsi proprio in questa ricerca la responsabilità dell'artista, il suo non accettare nessun emblema come oro colato né gioiello a causa dei suoi baluginanti riflessi. A riprova, chiedersi "e l'amore, che cos'è l'amore?" servirà, infatti, solo da cartina tornasole per saggiare la fungibilità degli strumenti: figure ideali, poligoni, fumo, regole di retorica, suoni, onde...

Ah...carte taroccate, a voi la parola! Le figure simboliche della Torre, le scientifiche dimostrazioni dell'incompletezza vanno a braccetto in un mondo di fantasia e lì s'incrociano con colui, tentatore di turno, che issa stemmi e stendardi e mena per notturni campi. In questo speciale cosmo o gabbia per soli pindarici voli, o segreta, eppure, non manca la rappresentazione della realtà, nei suoi echi più macabri e crudi e mal si farebbe a credere che le poesie coincidano con brani di sola finzione, pure se i personaggi paiono fiabeschi.

Il tempo, nelle densissime pagine, è solo funzione di un presente che va saggiato, turlupinato, travisato, rovesciato al fine di non assumerlo a scatola chiusa, ma di ricrearlo. Storia dovrebbe servire anche a sperimentare possibilità diverse:  avere in sé il progetto di un diverso andamento, tant'è che persino il ripristino della memoria è soggetto a divieto, non può essere incauto incedere, leggero procedere: "la memoria è una stanza chiusa / dove non si entra senza bussare.../ dovremmo essere in due a chiedere / il permesso.../ ma questo il fato non l'ha concesso". Eppure, il poeta se ne assume il rischio e il compito.

Verificare, ricordare, persino fingere di ricordare pur di mettere in scena, di rivivere, di accettare. In questo senso rammemorare è nuovamente percepire. È poter scegliere, come se il presente ancora nulla avesse determinato. Nuovamente saggiare l'amore che fu, soggiacere letteralmente, come fosse ora rinato. La lunga sequela di ipotesi che percorre tutta la raccolta, è quasi da Mille e una notte: ogni notte il racconto ricomincia "...forse ci siamo incontrati in un budello / di Instabul - io ero il portantino e tu"; "...siamo i domatori / delle tigri del Bengala, belli come dèi".

Gli amanti si travestono invano, l'ironia segue le volute dei loro dialoghi, non fosse altro perché osservano loro stessi, mentre sono assisi in platea. O anche sono amanti immaginati, in pose desunte da quadri e corniole, da bronzi e arie musicali, sono l'amore come dovrebbe essere. "Una tranquilla aria nostalgica si diffonde, / serenamente dubitiamo / della nostra realtà  e della musica di Mozart". Il passaggio temporale può chiudersi, la morte sopraggiungere e fermare le macchine:

<forse appena il delirio, il collirio
della disperazione ci ha sbarrato
le porte>> - dicevi nel sonno - <replicavo - e, senza fuga, non c'è ritorno...>>.
Eravamo parzialmente veri, distratti, attratti
senza sospetto, esatti nel balcone a guardare
le fiamme dei gerani (...) incorporei
come due voci in falsetto".

Che i due personaggi si lancino domande dal divano occidentale o sui pendii dell'Orlando Furioso, immersi nella Primavera di Botticelli o fissati da un dagherrotipo, la commedia non muta. C'è dell'immobilità in tale cangiare, forse proprio la sostanza fondante, quella uguale per tutti: la caducità. Ma è una caducità resa sfavillante da un cortese e fiorito scambio in cui, con straordinario zelo, gli amanti amano i propri inganni, a tal punto che "<>". E l'amore ideale diviene per questo non falso! Oltre questo giardino metaforico e cifrato, forse disegnato da un "dio solitario", melanconico, "il napalm bruciava". Non è la lingua né la letteratura a rendere  fallace il mondo, ma la sua inderogabile realtà.






da Blumenbilder (Natura morta con fiori)

Rugiada. Nella lastra gelatinosa
della fotografia è entrato un bosco
pieno di foglie… hai ripreso a respirare
come il profilo di Simonetta Vespucci!
all’orizzonte, dietro il tuo ritratto,
s’intravvedono uomini armati che
scherniscono un prigioniero con le mani
legate che sostiene una croce;
una folla di pellegrini e pastori
li seguono; più oltre non posso gettare
lo sguardo: il limite esterno rivela
la cornice - la storia disegna il teatro
del mondo, sopprime le comparse
inutili e resuscita i fantasmi -
ma noi, dietro il diaframma, enigmatici...
il mio ritratto osserva il volto
del tuo ritratto; due parvenze, o due essenze!
stormiscono gli alberi; un lieve vento
inanella i tuoi capelli; tu sorridi
come la vittima al carnefice; sei sola
nella tua casa veneziana, slacci
il busto e ti avvicini alla mia ombra;
una farfalla si arresta sul tuo gomito
e tu sorridi fra i tre alberi in fiore
e i tre ritratti...
in una piega del tuo volto abita una stella.
dietro la parete vi sono tre vascelli
idrocaedro invisibile che non hai mai
visto; ma tu sospetti… e aspetti
che da una fessura esca uno stormo di uccelli
e una nuvola di anelli…

ma noi, dietro il diaframma, prismatici


*

... il tuo volto inscritto in una medaglia
maschera che abita la parvenza
inciso nella cornice che abbaglia
il profilo che irride l’essenza...
abitiamo il cielo come due corsari
la tolda della stessa nave; due mari
si uniscono nella chiglia,
noi, saldati alla nostra epoché,
scettici e logògrifi, sinopiche
entelechie, il fumo ci abbaglia...
noi, la medaglia irrisa, fotometria
invisa al tempo...  - forse siamo una
congettura che si dissipa nel fumo,
siamo l’ombra dell’ombra sullo specchio...
- noi che abbiamo amato l’oblio
e il funesto inganno del girasole! -
la ruota del vasaio che gira il vaso
il tornio plasma il profilo della clessidra,
l’orecchino brilla sulla tua gota e oscilla
gli alberi spingono il vento
il vento soffia le parole di un dio
minore e noi siamo già vicino al mare che verdeggia...
una verde collina
in cima un albero dai bianchi fiori
un nero vento scuote le sue fronde...
io sono giovane; fruscio di clessidra:
io sono il falegname e tu la giovane Maria
Pilato deve ancora venire...
sono felice con la mia giovane sposa
e le legioni di Roma sono lontane...
il cielo, le stelle, l’anima, il sole,
la storia degli uomini, cataclismi,
olocausti...
e l’amore, che cos’è l’amore?
policaedro, confutazione di artigli,
fumo che si disperde tra le colline,
frinire di grilli al tramonto?

... vedo un angelo gobbo
che salta giù dal melo e nasconde
nell’ampio panneggio il sospetto.
E tu piangi


*


... nella differenza dell’altezza il
ritorno alla Torre è la misura,
il cronometro dell’incompletezza...
il destino è il pronunciamento del barometro
dimestichezza del centro...
conosco una suprema finzione
che tu chiami apologia del delirio
mutazione dell’equidistante.
Pasiphae nel guardinfante incendia
il luogo, l’hic et nunc, corposamente
oscena. - sì, una drastica lussuria.
…………………………….
gli esercizi incruenti tra le pareti
infernali ci trovano consenzienti, irreali...
acclamiamo le virtù del paesaggio:
stemmi, stendardi, bandiere dal tortile
profilo, spadini che feriscono

*
... fauni di marmo e veneri nude
belle come orchidee lungo lo stagno
che cullava le pallide ninfee...
ricordi? regnava un’atmosfera di lussuria
e di oltraggio.
La Bellezza simbolo dell’idea
era la nostra irredenta consunzione...
il cupio dissolvi dei mangiatori
di loto assopiti nell’edera
era metafora e geroglifico,
allegoria del giardino...
se lampeggiava un lampo in limine
era abbaglio,
finzione d’un recitativo,
meditazione d’un dio solitario,
melancholia di fauni farseschi, irridenti,
di sileni lussuriosi assiderati nel gelo
del mattino, intreccio di ninfe sottili
e amadriadi callipige...

lontano, oltre il giardino, il napalm bruciava

Nessun commento: