mercoledì 11 ottobre 2017

“Gianfranco Bruno pittore”, a cura di Lia Perissinotti, Erga edizioni, 2017




In occasione della recentissima uscita del volume “Gianfranco Bruno pittore” a cura di Lia Perissinotti, Erga edizioni, 2017, in cui sono presenti i testi di V. Sgarbi, C. Nembrini, R. Savinio e di G. Raboni, affrontiamo una questione molto cara a Gianfranco Bruno: il dolore, l’ingiustizia richiedono che si abbia il coraggio di guardarli. È, infatti, un atto partecipativo quello a cui ci esortano molti dei disegni di Gianfranco Bruno. Porsi un problema sociale, partecipare a un sentimento collettivo, vuol certamente dire viverlo, conoscerlo e l’arte ha assolto spesso la funzione di approfondimento e di discesa negli aspetti più torbidi e crudeli della condizione umana. A questo imperativo etico, l’opera stessa risponde con un segno scritturale, strumento di approfondimento,  in cui la parola non si trova troppo discosta dal visivo. Non diciamo di tale vicinanza perché Gianfranco Bruno si è dedicato principalmente alla critica d’arte, bensì perché quel tratteggio a china sul foglio “Massacro. Studio per una crocifissione”, del 1961, ci attanaglia con una rete di segni, sfilacciata in numerosi punti, ma fittissima in altri, che ci fa riemergere fra i bianchi flutti in compagnia degli altri corpi che affiorano e spariscono senza soluzione di continuità. Segni come corde, come legami emotivi. 

Vogliamo aprire una piccola parentesi sulla vicinanza in Bruno fra attività critica e attività artistica, poiché conoscere tramite le due istanze, quella verbale e quella grafica, comporta una distanza che solo a tratti si può ridurre,  senza però mai arrivare a chiudersi, ecco, perché ci appare ancora più preziosa la testimonianza prismatica di tale impegno. Proprio nel vaglio continuo delle due attività, meglio possiamo comprendere le differenze e i modi, le possibilità espressive e le attitudini mentali che sono operative nei due processi. E qui si vuole rinviare al meraviglioso testo di Gianfranco Bruno “La ricerca dell’identità” edito da Pagine d’arte nel 2001, che anni dopo ha voluto riproporre il testo della fondamentale mostra svoltasi a Palazzo Reale, Milano, nel 1974 per ricordare il tipo di critica tutto rivolto al versante dell’impegno verso gli aspetti più problematici della condizione umana.

Ma ora è al meno noto aspetto di Gianfranco Bruno, in veste di pittore, che desideriamo accostarci, in particolare a quel segno nero che è macigno e tenaglia, a quella possanza del suo ossessivo impeto che non rinuncia alla liberazione dal male. Lo potremmo riconoscere come segno specifico di Bruno: il grattare asfittico sulle pareti, sui volti, sugli abiti. È un segno che riunisce tutti i temi da lui svolti (autoritratti, paesaggi, figure) sotto l’egida di un’individualità accanita e inaderente al reale, quand’esso sia accozzaglia di stereotipi. L’individualità stessa è presa come esempio paradigmatico. La proiezione del sé vira i connotati identificativi, cancella i tratti distintivi, rinvia a una presa utopica. Non che l’arte si possa dire utopica sempre solo perché non imita il reale, ma in Bruno il coefficiente di carica utopica è di gran lunga più elevato rispetto al quella dei suoi contemporanei. 

Il pittore genovese fa cadere anche la distinzione tra il referente e il passato, quest’ultimo inteso come insieme di opere d’arte. E, allo steso modo, accade per il paesaggio e il volto: si può passare dall’uno all’altro attraverso il medesimo tratteggio, dalla montagna alla figura coi i medesimi pigmenti. Ciò che non cambia è la posizione del pittore, che si qualifica come uomo e che come tale osserva sia il reale, sia ciò che è realizzato pittoricamente da altri uomini. Non si può affrontare l’arte di Bruno senza avere ben presente questa sorta di passaggio immediato: che sia l’albero ne “Il giardino di François” (1986) o il nudo ne “Il figlio dell’uomo” (1999), la stesura catturante e inglobante del pastello solleva un’aria vorticante e avvolgente che sostiene e trasporta e si accorda al soggetto, il quale è immerso nell’atmosfera, vale a dire è parte integrante della vita.

Il visibile non presenta cesure e la restituzione pittorica avviene spesso in un’innaturale congiunzione di tonalità: che i volti ardano sullo sfondo di mattoni refrattari o si sfaldino in luci azzurrognole, non è il principio di una perdita d’identità, ma il segno della sua simbiosi con il reale (sia esso natura, o ambiente chiuso). Spesso nel paesaggio è nascosto un volto (“Tramonto a Sorlana” del 1991) o un occhio (“Prime idee per Montagna”, 1984), non certo per un valore scontatamente simbolico, ma in quanto specchio adeguatissimo che sappia catturare solo alcuni caratteri e non altri. D’altra parte il paesaggio è sempre stato cassa di risonanza per le più impalpabili sensazioni o i più angosciosi stati d’animo. Non è, quella di Bruno, una visione pessimista, ma una sensibilità ardente per le note, pur presenti, di degradazione nella bellezza o per la  finitezza che palpita nel lussureggiante. E a volte l’immersione nell’incanto paesistico è tale che ci attraversa trasformandoci. Se siamo della medesima sostanza della natura, lo siamo ancor di più nella rappresentazione pittorica, ove il colore, che in Bruno non si dissalda mai dal segno, rivela un’attenzione esclusiva al piano. La profondità, invece, appartiene al corpo, ove gli arti sfondano i piani e creano lo spazio scenico per la rappresentazione di tragedie interamente umane.

Il colore ha un rilievo preponderante nelle opere di Gianfranco Bruno, poiché la figura non è delimitata dal contorno e poiché non sono i piani a determinare le ombre, ma è un infittirsi del segno-colore a creare lo spessore materico degli elementi rappresentati. I pigmenti dunque si sovrappongono, a volte irati, altre pacati, sempre provenendo da ogni direzione: vere e proprie stille cromatiche, che, col loro moto, trascinano l’empatia dell’osservatore. Il tema, nel colore, trova come un sostrato, un fondamento che dà conto della drammaticità dell’assunto: quella condizione umana sempre in bilico tra cancellazione e affermazione. Tutto si gioca sul riconoscimento culturale delle diversità, sull’accettazione dell’altro, sul rispetto ineludibile, ma la sanguinolenta efflorescenza degli interni, la brunita tornitura delle membra, l’oscurità  e l’indistinzione in cui sono immersi i volti, ci confermano che non c'è progresso nella condizione umana. Ci resta la passione della testimonianza e della denuncia, ove l’arte ha inoltre la capacità di non parlare solo del presente, trascinando con sé tutta la storia umana, dai quei primi graffiti sulle pareti d’una caverna.

                                                                           Rosa Pierno



Gianfranco Bruno (Genova, 1937-2016) è stato Direttore, dal 1969 al 2001, dell’Accademia Ligustica di Belle Arti di Genova, di cui rinnova completamente l’istituzione. Dedicatosi inizialmente, fin dagli ultimi anni del liceo classico, quasi esclusivamente alla pittura, in particolare quella ad olio, si impegna in seguito, sempre più assiduamente, nella critica d’arte che diverrà nel tempo la sua attività “ufficiale”, senza che questo gli impedisca tuttavia di proseguire con continuità il suo percorso artistico nell’intero arco della sua vita. Importante nella sua formazione il soggiorno romano, durante il quale conosce Mafai, Mazzacurati e Fausto Pirandello, frequentazioni che lo introducono nell’ambiente artistico locale e consolidano il suo interesse per la Scuola romana. Successivamente vive a Milano, città con cui rimarrà sempre in contatto. Frequenterà nel tempo in particolare Testori, Tassi, Francese, Chighine, Morlotti, Savinio. Nel 1969, in concomitanza con la sua nomina di direttore dell’Accademia Ligustica, si trasferisce definitivamente a Genova. Dalla metà degli anni Settanta inizia a privilegiare la tecnica del pastello, che diventerà nel tempo il suo mezzo di espressione più consueto. Il suo orientamento artistico si fonda sulla convinzione che esista una continuità tra l’arte antica e quella moderna e in questo senso si può ben comprendere la sua predilezione per l’arte figurativa ed il rifiuto di qualsiasi “originalità” e compromissione in funzione del mercato. Attività artistica e attività critica trovano quindi ambedue motivazione in una scelta di orientamento corrispondente a ben motivate predilezioni personali. Rarissime le apparizioni pubbliche del suo lavoro. Sempre apparso restio ad esporre le sue opere per timore di una negativa interferenza tra la sua attività pubblica di critico e quella più intima e privata di pittore. Prima ed unica personale in Italia, nel 1998, alla Galleria Appiani Arte Trentadue di Milano. Di lui, Vittorio Sgarbi scrisse: “Bruno è interprete lucido come storico e come pittore”.



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